Quale crescita per quale curva?



Se tutto risponde a una gaussiana, a cui applichiamo degli ossimori per cercare di contrastarne e condizionarne eventuali esiti decrescenti indesiderati, anche l’inquinamento non fa eccezione e rientra in questa regola. Regola rappresentata dalla curva di Kuznets ambientale, per cui nella fase iniziale dello sviluppo economico (PIL) si assiste a un’alta impronta ecologica per poi iniziare a decrescere non appena nuove tecnologie, più pulite ed efficienti, sostituiscono le vecchie.


Questo modello garantirebbe il cosiddetto “disaccoppiamento” tra inquinamento (in particolare emissioni CO2) e aumento del PIL. Tutto questo sarebbe già una felice e incoraggiante realtà successa in più di 20 paesi tra il 2000 e il 2014: Austria, Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Paesi Bassi, Portogallo, Romania, Slovacchia, Spagna, Svezia, Ucraina, UK, Stati Uniti, Uzbekistan (Fonte: BP Statistica Review of World Energy 2015, World Bank World Development Indicators). Tutti paesi che sono riusciti ad aumentare il PIL a fronte di emissioni in flessione.
Tutto questo sarebbe sufficiente a dimostrare come la crescita sia la strada da perseguire, prima di tutto per garantire quel progresso tecnico che, come per magia positivista, permette di affrancarci dai vecchi modi di produzione. Insomma un win win per tutti.
Prima però di giungere a conclusioni affrettate, senza neppure contestare i limiti della curva di Kunts ambientale, proviamo per un attimo a sovrapporre le due curve: quella della crescita del PIL (è una gaussiana? Quindi decresce o rimane in uno stato stazionario? O, come vogliamo che sia, continuerà a crescere indefinitamente?) e quella della curva di kunts ambientale.

Come da desiderata, assumiamo che “dobbiamo crescere per proiettarci verso un efficientamento energetico”, se ci fermiamo anche solo a osservazioni di buon senso notiamo che ci sono alcune cose che non funzionano in questa prospettiva:

1) La contrapposizione tra la globalità degli effetti climatici contro il regionalismo delle economie, quindi il problema del tempo entro cui ciascun paese arriva ad avere un impatto ecologico ottimale. In questo caso, la curva aggregata a livello globale che tende a prevalere è sempre quella della crescita, in ogni paese, fino a quando non bisognerà a spettare che ogni paese raggiunga il livello atteso di riduzione dell’inquinamento. Se confrontiamo i dati per paese ci rendiamo conto che è possibile disaccoppiare l’inquinamento dalla crescita, ma se pensiamo al mondo nel suo insieme ciò non è ancora accaduto, anzi: crescita e inquinamento sono cresciuti di conseguenza. Questo vuol dire che la crescita di alcuni paesi virtuosi in termini di disaccoppiamento è stata possibile anche grazie ai paesi in via di sviluppo, tendenzialmente più alto inquinanti. Ad esempio, si pensi a due fenomeni: a) Le esportazioni nei paesi in via di sviluppo, capaci di sostenere una certa crescita domestica compensando così la stabilità, se non la flessione, dell’economia interna b) La delocalizzazione dell’inquinamento, che, a sua volta, si manifesta in due forme: dal fatto che certi paesi sono diventati “la fabbrica del mondo” (Cina, India), dal fatto che, proprio in virtù di questo, le principali materie prime utili per attrezzature apparentemente non inquinanti (pannelli solari, batterie elettriche) vengono estratte proprio in quelle “fabbriche”.
Per superare questo concetto di regionalismo del disaccoppiamento, che distorce ciò che avviene a livello globale, immaginiamo cosa accadrebbe se tutte le economie fossero completamente sviluppate (es. il posto della Cina verrà preso tra qualche decennio dall’Africa): ci sarebbe ancora crescita? Il punto è che la crescita dei paesi sviluppati, quelli virtuosi che apparentemente sono stati capaci di disaccoppiare, si è potuta mantenere anche grazie ai paesi in via di sviluppo.

2)  Il problema dell’accumulazione delle esternalità. Come si vede nell’immagine della curva di Kunts, l’impatto ecologico prima dell’inizio dello sviluppo a forte impatto ambientale (punto 0) non è lo stesso del punto di maggiore sviluppo immaginabile (punto C). Ma, volendo proprio sforzarci con l’immaginazione, solo l’ingenuità o una fede nella tecnica che rasenta il fondamentalismo (ma in fondo sono la stessa cosa), può indurci a credere che lo sviluppo sostenibile, green, può arrivare ad avere un impatto ambientale pressoché zero. Ammettendo anche che questa idilliaca realtà un domani si possa verificare occorre capire: quando? (vedere punto precedente), ce la farà questa nuova forma di energia e produzione a impatto zero a soddisfare una crescita indefinita? Se è vero che l’inesauribilità crea un “inflazionamento”, un “rigonfiamento” naturale, come fa questo presupposto a conciliarsi con l’innegabile limitatezza dell’ambiente stesso (a partire dalla demografia)?

Insomma, senza voler contestare la logica riduzionista, “locale”, della curva di Kunts ambientale ne appaiono evidenti i limiti “sistemici” nel momento in cui questa si sovrappone alla crescita globale del PIL. All’ecologia poco importa dei disaccoppiamenti locali, che magari traggono vantaggio dalle crescite ambientali indiscriminate di altre geografie. Tant’è vero che la storia degli ultimi 30 anni dimostra che i gas serra continuano ad aumentare, perché, aldilà di facili ingenuità, gli sviluppi tecnologici sono più lenti della sete di crescita. Una storia già vissuta con le prime crisi petrolifere.
Allora, fino a quando dovremo aspettare che l’inquinamento globale tenda ad abbassarsi, come prevede teoricamente la curva di Kunts? Siamo davvero sicuri che questo tempo sia tale da non metterci a rischio? Ovvero un tempo proporzionato e sufficiente a controllare ciò che genera? Non solo, fosse anche tale: siamo davvero sicuri che il punto a cui possiamo arrivare, tecnologicamente parlando, per garantire “energia pulita” sia sufficiente da non avere un bilancio finale negativo, non sostenibile nel lungo periodo? In altri termini, la curva di Kunts ambientale ci parla di una indiscutibile tendenza all’efficienza, ma quest’ultima sarà sufficiente per continuare a sostenere una crescita indefinita? Certo, si dirà: “se non ci provi non lo sai”. Sì, ma non è che provo a buttarmi da tre metri per capire se mi rompo o meno una gamba. Anzi, peggio, la nobiltà di lottare per determinati fini (in questo caso, il benessere collettivo che passa per lo sviluppo e la crescita) ha giustificato le atrocità peggiori dello scorso secolo: dal fascino per l’uguaglianza (comunismo) al riscatto di un popolo distrutto dalla prima guerra mondiale (nazismo).  
La verità paradossale è che siamo arrivati al punto in cui le logiche che ci portano alla fine del mese sono opposte a quelle capaci di garantirci un futuro. Per questo noi tutti, uomini ordinari, stiamo distruggendo con la nostra “etica del lavoro” (produttivo) il pianeta. Il dilemma sociale è il nostro quotidiano dilemma.
È vero, abbiamo bisogno di racconti e di visioni positive ma, prima ancora, abbiamo bisogno di una buona dose di consapevolezza per trasformare in stili di vita positivi quelli che oggi ci appaiono negativi; come un diverso approccio al consumo, più frugale, e al potere, più condiviso e partecipato. Una prospettiva evidentemente troppo complessa che si nutre dell’attesa dell’inevitabile. L’inevitabile è che arriverà un momento in cui proprio l’impronta ecologica ci costringerà (nel bene o nel male) a far decrescere la progressione insaziabile del PIL in una flessione dal sapore di gaussiana, così come, da un certo punto, la curva di Kunts riduce l’inquinamento a livelli crescenti di reddito pro capite.  

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