Perchè le società falliscono


Il premio Pulitzer Jared Diamond è noto per aver ampiamente divulgato, attraverso un’accurata indagine storica transdisciplinare, “il perché le società falliscono” (intervento TED del 2008). Il titolo di alcuni dei suoi libri è programmatico: Armi, acciaio, malattie (1998), Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (2005). Ebbene, lo scrittore statunitense ci offre una gerarchia di considerazioni tale da rendere più intellegibile la dissonanza cognitiva che si crea tra problema e ideologia. Ovvero il cortocircuito mentale che avviene quando un certo sistema di credenze e relative pratiche, magari di successo in un certo momento, se non rimesso in discussione lì dove inizia a generare problemi, può condurci verso il collasso.
1) La prima considerazione è il conflitto d’interessi tra il breve termine e il lungo termine. Questa dissociazione può essere più o meno latente e in buona parte il capitalismo deve il suo successo alla capacità dimostrata negli ultimi due secoli di ridefinirsi, di sapersi adattare alla conciliazione dei due orizzonti temporali, di breve e di lungo. Una dissociazione che ricorda il “paradosso del potere” di Dacher Keltner, in cui le qualità intrinseche di un sistema o di una figura di potere lo portano ad affermarsi in quanto tale, ad imporsi su altro e altri (successo sul breve periodo). Tuttavia, il potere molto spesso vince la battaglia ma non la guerra poiché l’approccio che lo ha fatto emergere è lo stesso che lo rende conservatore, incapace di adattarsi alla stessa velocità dei mutamenti che contribuisce a generare. In questo modo, paradossalmente il potere rischia di perdere presa sul lungo periodo: ciò che Keltner dimostra a livello individuale sembra realizzarsi anche a livello sociale. Essendo il potere conservatore della sua condizione rispetto alle cose, rischia di perdere la battaglia evolutiva; allora è quest’ultima stessa tensione a dirci che la darwiniana “competizione evolutiva”, checché ne dica la forza economica del capitale, non è questione di forza e potenza bensì di resilienza e flessibilità. Ciò diventa particolarmente visibile quando il motore di un certo potere si esaurisce, ad esempio le disuguaglianze sociali e l’erosione dei limiti ambientali nel caso capitalista. Se il potere non ha la capacità di rinnovarsi, e all’occasione di rinnegarsi rispetto a un certo paradigma, la forza dei cambiamenti rischia di dissolverlo più o meno velocemente. A tale proposito Diamond fa l’esempio dei Vichinghi della Groenlandia, una società gerarchica e competitiva che spingeva l’élite a ottenere più seguaci, più pecore e risorse. Questa progressione li condusse a un eccesso di sfruttamento del territorio, costringendo i contadini a una condizione di dipendenza.
2)  La seconda considerazione che offre Diamond è il legame ideologico a sostegno di certi interessi. Delle pratiche, che portano all’emergere del suo rispettivo potere, sono sostenute da credenze, visioni e valori più o meno radicati ed espliciti. Diventa difficile rimettere in discussione degli approcci, un sistema di idee, tanto quanto è difficile rinunciare a un certo interesse. Spesso l’ideologia è il segno più sottile del potere, più raffinato tanto più si impone in modo implicito e indiretto, a partire sui suoi fautori. L’ideologia crea cecità e diventa la causa prima di incapacità alla resilienza e flessibilità, denotandosi come la vera causa di dissonanza e incoscienza collettiva. I Vichinghi della Groenlandia, in condizioni ambientali difficili, grazie alla loro dedizione religiosa e alla forte coesione sociale rimasero uniti per quattro secoli e mezzo. Tuttavia, proprio queste due caratteristiche, da qualità si trasformarono in limiti, rendendoli incapaci di imparare dagli inuit ad adattarsi al contesto climatico e ambientale mutato.

Dunque, occorre sempre tenere conto dei break even: ce ne sono di economici e, se proprio vogliamo ridurre tutto all’economia, si applicano anche al processo evolutivo; passato il punto critico la progressione di crescita avanza in proporzione inversa. Gli ossimori sono un segnale dell’inversione di tendenza, in cui la contraddizione tra fatti e storytelling apre un crescente gap (appunto, dissociazione) che, se ignorato, conduce a un cambiamento di paradigma più o meno veloce e violento. Di conseguenza, l’attuale cerniera che permette al potere “di nascondere i problemi”, per rallentare il conflitto d’interessi tra il breve e il lungo periodo, è la comunicazione. In un contesto democratico la retorica della comunicazione, attraverso “la fabbrica del consenso”, non può che sostituire la pratica violenta di politiche esplicitamente più autoritarie. A tale proposito, l’abilità adattativa del capitalismo non è tanto di tipo strutturale quanto, appunto, di natura comunicativa e di legittimazione ideologica. Infatti, da un lato il conflitto di interessi tra breve e lungo periodo si argina attraverso l’ossimoro dello sviluppo sostenibile, rimandando al futuro e alla sua tecnica la promessa di continuità di un certo modello. Dall’altro, la natura ci assicura che la lotta per la sopravvivenza è la sola strada maestra che dirige e governa la freccia del tempo (impostazione darwiniana -> naturalista -> individualista), quindi questa “marea evolutiva alza tutte le barche” e va a vantaggio di tutti. Insomma, non ci sono alternative a questo modello che (finché lo sostiene la tecnica) di fatto subordina la socialità alla logica pervasiva dell’economico.

Il liberismo naturalista è attraente poiché è facilmente manipolabile, da un punto di vista politico riesce a far coesistere paradigmi opposti come una governance centralmente prestabilita della dominazione del mercato (facendo del lassiz faire una dimensione autoritaria e antidemocratica), legittimando e nascondendo al contempo tale autoritarismo con la libertà democratica degli interessi individuali, del merito: della selezione naturale. A tale proposito è significativo il dibattito tra Lippmann-Dewey nella prima metà del novecento, nel quale i due autori problematizzano il ruolo del giornalismo, e in ultima istanza della democrazia, nelle società contemporanee della mondializzazione. Entrambi partono da presupposti liberali differenti e contribuiscono a formare, in particolare il pensiero di Lippmann, quella che poi è divenuta l’attuale dottrina neoliberista. Basti pensare alla “Mont Pelerin Society”, un'organizzazione internazionale istituita nel 1947, fatta da economisti, intellettuali e uomini politici, riuniti per promuovere il libero mercato e la “società aperta”. Ciò che garantisce l’adattamento polivalente del pensiero prima liberale e poi neoliberale è la cerniera della comunicazione che è capace di tenere assieme, in base alle circostanze, l’istanza democratica (la visione di Dewey dell’autodeterminazione popolare, della compartecipazione al dibattito pubblico bilaterale tra cittadino e leader che si influenzano reciprocamente nella dinamica evolutiva) e l’istanza autoritaria (la visione lippmaniana per cui le masse sono informi e hanno bisogno di un leader e di esperti che le sappiano indirizzare, per potersi adattare, evolutivamente, alla forza dei cambiamenti). La comunicazione diventa lo strumento per garantire il giusto mix tra apparente democrazia e manipolazione del suo consenso, ciò è possibile passando per il paradosso dell’informazione in un mondo sempre più globalizzato. A tale proposito è interessante notare come la nozione di “the manufacture of consent” (la fabbrica del consenso), utilizzata da Noam Chomsky e Edward Herman nell’omonimo libro del 1988, è una nozione espressa dallo stesso Lippman in Public Opinion del 1922. Ebbene, più c’è comunicazione e meno c’è informazione e, ancora e peggio, più c’è informazione e meno c’è conoscenza. Questo l’approccio pragmatista e cinico di un Lippman che porta alla facilità di essere manipolati: esplicitamente, in base al miglior narratore di storytelling; implicitamente a partire da coloro che hanno i mezzi finanziari per controllare i canali comunicativi. Dall’altro lato, secondo Dewey, non si può neppure ignorare che la manipolazione della conoscenza non ne esclude una sua, seppure parziale, presenza che, a sua volta, è capace di influenzare la leadership. Esattamente come i raggi del sole sono filtrati da una tenda che, nonostante tutto, riesce a illuminare. Due meccanismi e argomentazioni speculari quelli guidati dal dibattito Lippmann-Dewey, analogamente a come e quanto Glaucone contrapponeva a Socrate l’origine della giustizia. Come è noto, secondo il primo filosofo la giustizia sarebbe perseguita dalla maggioranza non perché è un bene in sé che ci conduce alla felicità, bensì per le conseguenze utilitariste che ne deriviamo (denaro, reputazione etc.). All’opposto, il secondo vedeva nella giustizia un bene in sé, aldilà e non solo per le conseguenze sociali “posizionali”, di status, che ne traiamo. Evidentemente l’impostazione utilitarista ci conduce a un certo cinismo pragmatico, e la sfiducia che Lippman ha della massa popolare permette alla dottrina neoliberale di tradursi in governance. Dall’altro lato, per delle ragioni “emotive” di storytelling, la retorica capitalista neoliberale non può presentarsi come autoritaria e cinica (nasce da presupposti del tutto differenti!), quindi gli arriva in supporto l’interpretazione deweyana, se vogliamo il socratico “valore morale” di umanizzare democraticamente il cinismo utilitarista. Tuttavia, se la comunicazione è il palcoscenico entro cui si dosano sapientemente l’istanza democratica del consenso e lo spirito autoritario di governabilità, cosa determina la variabilità dell’illuminazione che filtra dalle tende manipolatorie del potere? Come ricorda Lippman in Public Opinion è la prevalenza dei fatti sullo storytelling, quando i primi si disaccoppiano dai secondi. L’abilità del leader risiede nella capacità (e fortuna) di saper accoppiare questi due fattori producendo “fatti poco avversi” al suo storytelling o, molto più spesso e molto più facilmente nell’ottica di breve periodo, adattare il proprio storytelling a dei fatti avversi. In questo ha senza altro ragione Dewey quando parla di una reciprocità dialettica tra l’opinione pubblica e il leader, nel non denotare a priori l’opinione pubblica come passiva. Al contrario Lippman ha senz’altro ragione nel sottolineare e metterci in guardia sul fatto che il consenso può essere fabbricato ed essere ridotto a oggetto. Diventa palese come la cerniera tra i due soggetti, che li rende più o meno in balia dell’altro, sono i fatti.
I due paradigmi si nutrono e si specchiano nell’altro, così come il politico, attraverso la nozione di giustizia, può ricorrere alla sua legittimazione pratica attraverso Glaucone e morale attraverso Socrate. La dottrina neoliberale per rendersi flessibile fa vivere la contraddizione attraverso tale specularità: lascia democrazia e libertà per garantire il libero mercato ma occorre sorvegliare e regolamentare quest’ultimo (ma come e quando?), per evitare che questa stessa libertà non sia compromessa dall’anarchia, quindi si tratta di una paradossale dittatura della libertà la cui regola è di imporsi su tutto il resto. Più il liberalismo è lasciato a sé stesso più il sistema diventa complesso e la complessità ne implica la gestione che, in misura crescente, contraddice il principio stesso liberale. I fatti, aldilà di uno storytelling fine a sé stesso, rendono manifesta la contraddizione e lo spettro del fallimento sociale.

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