Dimmi che crisi vivi e ti dirò chi sei


Facendo un po’ di storia possiamo constatare l’esistenza di tre fattispecie di crisi interconnesse: economica, energetica, ecologica. E’ particolarmente interessante studiare le crisi poiché in genere a queste seguono dei “cambi di paradigma”, delle reazioni che rimettono in discussione più semplicemente delle prassi o più strutturalmente delle strategie, se non addirittura intere ideologie. Il problema è che questi tre tipi di crisi non sono tutti sullo stesso piano, hanno caratteristiche diverse. Le crisi economiche spesso sono dirette, più o meno “improvvise” ma spesso rallentano indirettamente la crisi ecologica. Dal canto loro le crisi energetiche possono verificarsi a partire da diverse cause, più o meno dirette e impreviste, ma conducono necessariamente a crisi economiche. Infine, la crisi ecologica è la più profonda e temibile di tutte poiché conduce a crisi energetiche e quindi economiche.
Ora, il problema è duplice: abbiamo un certo storico dei primi due tipi di crisi ma non del terzo, quantomeno su larga scala. D’altro canto, la crisi ecologica non si presenta “improvvisamente” bensì più progressivamente e lentamente, questo non permette di prepararci adeguatamente per le risposte radicali da mettere in atto vista la profondità dei problemi che pone, non solo in termini economici ma più in generale sociale e culturale.
Facciamo ora un po’ di storia su cosa è accaduto nei primi due tipi di crisi:

CRISI ECONOMICA:
La prima grande depressione moderna è quella del 1873-1895, vi è poi la più nota del 1929 e quella del 2008. A ogni crisi economica hanno fatto seguito risposte sul piano economico e sociale, generalmente di rafforzamento della regolamentazione statale e delle strutture di risparmio e credito. Credo che se si dovessero paragonare gli interventi messi in atto nelle prime due crisi per riformare il modello economico, rispetto a ciò che è stato fatto a seguito dell’ultima grande recessione, ne usciremmo piuttosto imbarazzati. Oltre al salvataggio delle banche e l’austerity in zona Euro, le istituzioni finanziare e, in generale, il modello economico mainstream non ha subito un “cambio di paradigma” significativo a seguito dell’ultima grande crisi del 2008. Tutto continua il “business as usual”, nella speranza che il sistema neoliberale curi le sue ferite.
Le crisi economiche possono condurre a importanti fenomeni di medio e lungo periodo, come cambiamenti di assetto geopolitico fino a guerre.

CRISI ENERGETICA:
A chi dovesse pensare che, a causa dei problemi ecologici, è la prima volta nella storia che l’uomo si trova massivamente di fronte alla necessità di rivedere il suo modello di consumi e quindi energetico, si sbaglia. Abbiamo due importanti precedenti di crisi energetica che dobbiamo ricordare, quelli degli settanta: del 1973 e 1979. A proposito, di particolare interesse sono le risposte che si diedero a seguito di quelle vicende, risposte che hanno segnato gli anni successivi e ci condizionano ancora molto:
Risposta tecnologica: in quegli anni ci fu un impulso a migliorare le strategie tecnologiche di estrazione e ottimizzazione delle rese dei combustibili fossili, nonché la ricerca di alternative energetiche basate sempre sui combustibili fossili (per esempio il gas o la scoperta di nuovi giacimenti di petrolio), piuttosto che le rinnovabili o il nucleare. Non solo, ci si pose anche l’obiettivo di sviluppare politiche di certificazione energetica che stimolarono la commercializzazione di prodotti più efficienti.
Risposta politica: le risposte furono variegate, dalla “risposta tecnologica” di cui sopra, a un rinnovato interesse diplomatico nelle zone mediorientali.
Sicuramente ha fatto storia il discorso del 1979 del presidente americano Carter, che parlava di “crisi di fiducia” e che pessimisticamente per la prima volta nella storia invitava i propri concittadini a consumare meno e a preoccuparsi del futuro energetico. Ovviamente un discorso che un politico non dovrebbe mai fare (specie in una democrazia rappresentativa, in cui comunicazione è marketing e la strategia è di breve/medio periodo). Infatti, alle successive elezioni presidenziali si affermò Reagan con cui l’attuale assetto neoliberista ha fatto molta più storia del discorso di Carter. In pratica, considerato che la prolungata stagflazione degli anni settanta disattendeva le prospettive keynesiane che poggiavano sull’assunto macroeconomico della curva di Phillips (la relazione inversa tra il tasso di inflazione e il tasso di disoccupazione), furono le visioni di Milton Friedman ad affermarsi. In un contesto in cui il keynesiano intervento statale nella sfera economica non riusciva a spiegare la compresenza dell’inflazione a fronte di un’economia che non cresceva, la decisione fu di deregolamentare e iniziare l’attuale stagione di rinnovato libero mercato, in cui la “marea alza tutte le barche”. A ben vedere, l’eredità di quel decennio di crisi energetica è stato strutturale e fondamentale per comprendere i nostri giorni, cambiando il paradigma di politica economica.
Risposta culturale: Ma le risposte di politica economica hanno forgiato anche la nostra cultura, convincendoci sempre più, all’interno della cornice positivista iniziata con la prima rivoluzione industriale, che per portare avanti la transizione energetica occorre avere più soldi, quindi sostenere la crescita. In realtà, è proprio la storia di questi ultimi 40 anni a dimostrarci come la sete di crescita (demografica e dei consumi) è ben superiore alle efficienze da essa trainate. Quest’ultima aritmetica tra: demografia + crescita economica – sviluppo tecnico, ci porta direttamente nella crisi più profonda e delicata di tutte,

Date queste premesse, è chiaro come lo sviluppo tecnico non ci permette di risolvere la crisi ecologica. Quest’ultima non è una crisi da cui se ne può uscire con la sola tecnica, poiché è una crisi che minaccia la tecnica stessa. Il cambiamento di paradigma non può essere lo stesso delle crisi energetiche degli anni settanta, in cui l’obiettivo era delocalizzare il problema dai paesi OPEC differenziando semplicemente le fonti energetiche. Vedendo quanto è per noi importante la crescita occorre rimettere in discussione tutto il modello. Purtroppo, i segnali della crisi ecologica nella quale già ci troviamo sono spesso parcellizzati e indiretti. Soprattutto, non dipendono da strategie geopolitiche o da istituzioni economiche, dipendono da “un’esternalità” che comprende tutte le altre e che è stata sempre ampiamente ignorata, appunto l’ecologia, un nuovo rapporto uomo-natura.
Occorre dunque distinguere la dimensione delle crisi per poterle affrontare.

Il punto non è il conflitto tra cornucopiani (coloro che credono che la tecnologia anticiperà i limiti allo sviluppo) e i catastrofisti (coloro che credono che a un certo punto “l’open bar” della crescita terminerà). Entrambi hanno buone ragioni per affermarsi ed esempi per cui legittimarsi: i primi fanno appello alla profezia fallita di Malthus e gli immensi progressi tecnici che hanno permesso di allontanare quest’ultima, i secondi sottolineano tutti i problemi ecologici ai quali ci siamo assuefatti. Una considerazione, spesso non detta e che nel dibattito rafforza la posizione catastrofista, è che lo spettro del fabbisogno energetico, e la questione ecologica che ne deriva, si è già manifestato nella storia recente caratterizzando gli anni settanta con le sue crisi petrolifere. Questi ultimi quaranta/cinquanta anni ci dimostrano un fatto incontestabile, quanto è incontestabile (per ora) il fallimento maltusiano: ancora non siamo riusciti, a livello globale e aggregato, a dissociare crescita ed inquinamento, PIL e CO2. La realtà è che i passi avanti fatti dalle fonti di energie rinnovabili e dallo sviluppo sostenibile non hanno risolto un problema ma paiono semplicemente rallentarlo. Se prendere tempo è fondamentale per mantenere speranza e credibilità nella fede cornucopiana, è pur vero che non esiste alcun automatismo scontato che ci porta a risolvere i problemi solo perché li rimbalziamo più o meno abilmente in avanti. Allora la questione è: quanto essere cornucopiani? Ovvero, quanto pensiamo di affidare tutta questa scommessa alla tecnica? Dall’altro lato, come essere catastrofisti: su che orizzonte temporale proiettare la fine di una crescita che ha bisogno di perpetuarsi per mantenere il sistema a regime? È evidente come la crescita, per quanto possiamo dirci cornucopiani, non può essere la soluzione se al contempo è anche il problema. Però la storia ci dimostra anche che c’è del margine per fare efficienze, per progredire, per inventare nuove soluzioni. In sintesi, una storia che ci dice come il tempo non sia infinito, che i problemi non possono essere rallentati ma risolti, specie quando la loro entità si fa pressante.
A tale proposito, la vera emergenza “catastrofica”, se c’è, non è tanto nelle innumerevoli sirene che intimoriscono sui danni ecologici che si stanno amplificando, quanto nel paradigma di fondo non rimesso in discussione che vede nella crescita la risposta ai suoi limiti.

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