Per una visione d’insieme


Nonostante diversi sociologi (Karl Polanyi e Mark Granovetter) abbiano parlato di “embeddedness” riferendosi alla sfera economica nella società, oggi all’opposto si ha la sensazione che l’economia abbia annientato quest’ultima. È questo presupposto, che ci impedisce di avere una visione d’insieme chiara. Un presupposto che antepone la tecnica al fatto di avere una visione necessaria che possa indirizzarla. Ne abbiamo la prova quando, di fronte alle crisi ecologiche che viviamo rispondiamo con degli ossimori come “sviluppo sostenibile”. Non avendo una visione ma solo approcci tecnici (meglio, essendo la nostra visione solo di natura tecnica) non riusciamo a rimettere in questione la nozione di sviluppo. In questo modo pensiamo sia sufficiente migliorare le soluzioni tecnologiche; ci affidiamo alla fede che quello che oggi è un problema domani non lo sarà più.
La verità è che le sfide in questione richiedono di ricordarci dell’inevitabile “embeddedness” dell’economia nell’umano, del fatto che l’economia è una scienza sociale e non un mero derivato positivista della matematica. Si tratta di una sfida innanzitutto culturale, che richiede un nuovo approccio uomo-natura.
Molti studiosi e ricercatori riflettono sempre di più su delle possibili alternative all’approccio capitalista, se è vero, come affermava Einstein, che per risolvere un problema occorre uscire fuori dalle logiche che l’hanno creato. Ebbene, credo che, facendo leva sulla globalità delle sfide occorre affrontarle con altrettanta visione d’insieme. Occorre quindi anteporre un approccio filosofico a uno strettamente tecnico/economico del “business as usual”.

Questi alcuni punti da cui iniziare:

1) Cambiare la governance politica. Diversi avvenimenti (dalla Brexit ai gilet gialli, alla nascita dei populismi) ci parlano di una crisi democratica, portata dai venti della crisi e da un progressivo allontanamento della classe politica rispetto ai problemi reali della gente, quindi dell’accrescersi delle disuguaglianze. Sotto questo punto di vista le democrazie rappresentative sono giunte a esaurire le proprie risorse interne, sempre di più si affaccia la possibilità di modelli vicini a quelli di una democrazia diretta. Alcuni di questi modelli già esistono da tempo, come nel caso della Svizzera o la California. Il passaggio dall’elezione (di rappresentanti a cui si delega il potere e che sono portati a esasperare il loro self-marketing) al voto (si sceglie del proprio futuro attraverso l’informazione) è essenziale. Occorre cioè istituzionalizzare il “depotenziamento del potere” trasformando i lontani centri decisionali in centri amministrativi. Non si tratta solo di cambiare sistema politico ma l’impegno civico delle persone, reimmettendo nelle comunità reciprocità e relazione, sfilacciatasi dopo decenni di neoliberismo “alla Thatcher”: “la società non esiste esistono solo gli individui”. 

2) Cambiare le politiche economiche e i suoi dogmi. Tanto e sempre di più si dice sui limiti di una crescita economica infinita in un mondo finito, ovvero una crescita fine a se stessa. Da un punto di vista macroeconomico sono interessanti gli studi pragmatici di Peter Victor in “Managing without Growth” (2008), le ricerche sullo stato stazionario di Herman Daly e il “Prosperity Without Growth” di Tim Jackson. Non solo, le stesse critiche di Marx al capitalismo sono del tutto attuali, per quanto le sue alternative siano state ampiamente superate dalla storia. In effetti, il capitale lotta per ridurre il più possibile ciò che lo rende possibile: la forza lavoro. Questa deriva efficentista è ben visibile nell’intelligenza artificiale, che ci prefigura un futuro da disoccupati. Un futuro meno competitivo e produttivista, liberato da un “lavoro efficentista”, può permettersi di offrire del tempo a dei rinnovati cittadini, che possono sentirsi più coinvolti nell’impegno civico del punto 1).

3) Cambiare gli agenti del capitalismo: le imprese. La cellula dell’organismo capitalista è l’impresa, un attore che, seguendo il semplicistico modello dell’homo oeconomicus, compete in una visione evoluzionista, cercando di accumulare sempre più per non “farsi sorpassare”. Il modello cooperativo è nato proprio per contrastare il progressivo affermarsi dell’azienda capitalista. L’approccio cooperativo coerentemente al punto 1) predilige la partecipazione alla deresponsabilizzazione o, peggio, all’individualismo (competitivo). Inoltre, è un modello capace di sinergia con il punto 2) per quanto riguarda la riduzione delle disuguaglianze grazie a un maggior sostegno sociale dato delle politiche macroeconomiche.

   4) Cambiare la politica monetaria. A riguardo sono interessanti gli studi di Bernard Lietaer sulle monete complementari, capaci di ridare “biodiversità” ai sistemi di scambio, rilocalizzando l’economia, aumentandone la resilienza. L’eccesso di debito nelle società contemporanee è un altrettanto inquinamento invisibile, che lascia i sistemi economici in preda alla volatilità speculativa. Ciò non vuol dire decostruire l’attuale assetto monetario piuttosto affiancare le monete statali a quelle locali, il cui obiettivo non è di creare debito e alimentare l’accumulazione, bensì quello di favorire lo scambio. Sotto questo punto di vista, se le imprese sono la cellula dell’organismo capitalista, la moneta ne è il suo sangue che condiziona tutto il sistema. Se non si controbilancia e diversifica la moneta, incentivando non solo il suo attuale aspetto capitalista di accumulazione, ma anche di valore sociale di scambio e di sostenibilità ecologica locale, si rischia di restare fermi all’interno degli stessi paradigmi.
Un simile approccio non solo riduce la finanziarizzazione dell’economia ma è perfettamente coerente con la sovranità del punto 1) (la sovranità popolare è anche sovranità monetaria), in contesti a maggiore capitale sociale (come da punti 2 e 3).

5) Globale versus locale. A ben vedere tutti i precedenti cambiamenti vanno a comporre un quadro che si completa nell’azione che il singolo può apportare nella propria comunità. Solo attraverso una maggiore densità relazionale è possibile l’esercizio civico ed economico del cittadino. È all’interno della comunità che la biodiversità delle monete complementari possono esprimere il loro volto sostenibile, di scambio non speculativo. Anche a proposito abbiamo numerosi esperimenti, tra cui uno su tutti le “città in transizione” a cui tanto si dedica Rob Hopkins.


In un’ottica positivista abbiamo tanto lottato affinché il nostro sistema diventasse efficiente, ora che quest’ultimo, nella logica della “monocultura”, lo è diventato fin troppo occorre controbilanciare questa sua globalizzazione con la resilienza del locale ridando partecipazione a ciò che è stato alienato. D’altra parte il liberismo crea un paradosso, che è quello di aumentare la complessità nella misura in cui aumenta scambi e relazioni. Ma proprio questa complessità impone una sua gestione, che se portata alle estreme conseguenze, così come la complessità che la libertà implica, finisce per contraddire il presupposto da cui partiva. L’esempio più evidente è quello ecologico, in cui lo sfruttamento indiscriminato e globale delle risorse può condurre all’esaurimento di queste ultime e quindi a un loro razionamento. Esattamente l’opposto del principio per cui occorre dare la possibilità di offrire tutto a tutti, attraverso la concorrenza.
In fondo, evoluzione non vuol dire sempre “miglioramento” (di cosa, per cosa?) bensì adattamento. Appunto, adattamento è cercare la giusta misura, qualcuno aristotelicamente direbbe “il giusto mezzo”. Friedrich Schumacher ha parlato di Small Is Beautiful: A Study Of Economics As If People Mattered (1973), dal lato suo Olivier Rey più recentemente ha giustamente evidenziato come non necessariamente il “piccolo è bello” così come “il grande è meglio” (dogma dietro alle economie di scala capitaliste), piuttosto ciò che è buono è il “ben proporzionato”. Un relativismo delle misure che traspare dal titolo della sua opera Une questione de taille (2014). Se la bellezza e “il giusto” sono la corretta proporzione tra le parti, cosa ci permette e cosa ci impedisce di vedere la giusta misura? Un dibattito che ricorda la contrapposizione tra crescita e decrescita, cornucopiani e catastrofisti, dove le parole polarizzano ed enfatizzano determinate realtà. È chiaro come “il piccolo è bello” non è una risposta sempre e comunque, così come la nozione di decrescita e il pessimismo catastrofista sono un limite alla cognizione. È altrettanto chiaro però, come la radicalità di certe posizioni si contrappone esattamente al radicalismo con cui la controparte si impone, in questo caso il positivismo cornucopiano, piuttosto che l’irriflessiva fiducia nella crescita. Più difficilmente, trovare la “giusta proporzione” è un compito che non prevede il cieco perseguimento di una dottrina (crescita o decrescita, globale o locale etc.), quanto l’applicazione di un certo spirito critico, capace di tematizzare e problematizzare le questioni.
Nelle cinque proposte appena menzionate si coglie lo slittamento dal globale al locale, del “piccolo è bello”, tuttavia in sé questa non può essere una risposta a priori. Quantomeno una risposta in cui perseverare sempre e comunque, altrimenti si cade nel fraintendimento che separa il miglioramento dall’adattamento, che, appunto, è la degenerazione da curare, dalla quale veniamo. Se oggi abbiamo la necessità di provocarci con nozioni catastrofiste di decrescita, dal sapore di locale, è perché abbiamo superato il giusto mezzo, sconfinando in un’ostentazione incapace di adattarsi, rimettendosi in discussione. Troppo facile e scontato intraprendere una direzione senza poi rimetterla in discussione, è il vizio del potere e ciò che ne determina la ciclicità; dalle sue prosperità alle crisi. Più impegnativo intraprendere un percorso costante di critica, il solo a saperci dare una visione umanistica d’insieme. Il solo capace di farci rispondere alla domanda: cosa ci permette e cosa ci impedisce di vedere la giusta misura?

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