Il paradosso del potere
Questo è il titolo
del libro dello psicologo sociale Dacher Keltner. Una ricerca che offre
supporto al senso comune quando afferma: “il potere monta la testa”. Una sorta
di droga che ci rende più impulsivi e meno capaci di comprendere gli altri. Il
paradosso risiede nel fatto che, nell’esercizio del potere, sono proprio le
qualità che ci hanno portato ad averlo, ovvero la capacità di essere empatici e
disponibili verso l’altro, ad essere minacciate. Un paradosso che ben si
esprime nella democrazia rappresentativa, in cui nella fase persuasiva
(elettorale e di consolidamento del consenso) il potere si mostra a completo
servizio del bene pubblico, mentre nella fase esecutiva si mostra ben più pragmatico
e spietato. L’aspetto interessante della ricerca di Keltner è non solo la
preoccupazione morale sul singolo individuo, per cui banalmente il potere ci
cambia rendendoci mediamente persone peggiori, quanto il fatto che, proprio perché
peggioriamo influenziamo in malo modo anche il futuro e la strategia tout court del potere, rendendolo meno
sostenibile.
Senz’altro le
democrazie occidentali negli ultimi secoli hanno intrapreso, in modo non sempre
continuo e coerente, un percorso che le ha portate dall’esercizio di un potere assoluto/impositivo
(si pensi alla coercizione militare) a quello collaborativo. Anche le
organizzazioni e le gerarchie aziendali vivono questo progressivo processo di
appiattimento verso la “corresponsabilità collaborativa”. Tuttavia, tale
cambiamento si è verificato principalmente sul piano consensuale che su quello istituzionale.
Ovvero, viviamo in un’epoca in cui il sentimento di un potere collaborativo si
è sviluppato più proporzionalmente rispetto a quanto è cambiato il suo sostrato
strutturale. Sostrato che fa coesistere forme di governance assoluta con un’accresciuta informazione e
consapevolezza sociale, che si accompagna alla volontà di un suo riconoscimento
sulla scena pubblica. Ad esempio, contraddittoriamente sul piano politico i
referendum si alternano all’irrevocabilità dei mandati politici degli eletti. Da
qui si comprende la crescente inattualità della democrazia rappresentativa. Piuttosto
che, su un piano aziendale, le survey
di soddisfazione interna si alternano a decisioni prese in modo univoco dal
management. Da qui si comprende la necessità delle organizzazioni di “controllare
meno” il lavoro; da un’ottica amministrativa fantozziana basata sulla “presenza”
si passa a una performance legata ai “risultati”. In entrambi i casi, da quello
politico a quello organizzativo, si capisce il perché dell’enorme sforzo
comunicativo che caratterizza il nostro tempo; sforzo teso a supportare
costantemente, attraverso il consenso, quelle sacche di potere assoluto di cui
sono costituite le sue forme istituzionali. Ma, come notano Edward S. Herman e
Noam Chomsky in La fabbrica del consenso
(1988), non è uno sforzo quantitativo teso semplicemente a informare bensì a
manipolare. È dunque nel monopolio del consenso, in quanto terreno su cui si
esercita il potere collaborativo, che si gioca la partita del potere. Sotto
questo punto di vista si assiste a una trasposizione delle tecniche di
marketing al dominio comunicativo della politica e delle organizzazioni,
enfatizzando il piano valoriale e simbolico. Se il potere non viene più imposto
(in una logica militare), allora viene influenzato (in una logica economica di “sfera
d’influenza”). Allora l’esercizio politico e manageriale sta tutto nella
capacità retorica di persuadere, “fabbricando il consenso”.
Per tornare all’analisi
di Keltner, questo tipo di potere collaborativo senz’altro depotenzia, quantomeno
apparentemente, la sua forma assoluta, impositiva. Dovrebbe cioè portare a
ridurre il rischio del paradosso del potere, influenzando meno negativamente la
psiche di chi lo esercita, poiché, in fin dei conti, chi è interessato a
governare deve poter mantenere il consenso. Tuttavia, se lasciamo al solo consenso
la cura dei lati oscuri del potere, rischiamo di depotenziare altrettanto superficialmente
i suoi paradossi, poiché li trattiamo solo da un punto di vista “d’immagine” e
non anche nei suoi aspetti sostanziali. In altri termini, la dicotomia imposizione vs consenso è la forma
esterna entro cui si esprime il potere, nel primo caso in modo univoca nel
secondo in modo collaborato, tuttavia ciò non toglie che nel suo effettivo
esercizio decisionale, ovvero istituzionale, strutturale, si resti ancorati su
un assetto assoluto. Appunto, se si crea questa dissociazione il rischio è di strumentalizzare
l’informazione “fabbricando il consenso”, privilegiando l’immagine della
retorica sui contenuti. Evidentemente ciò accade perché si è depotenziata la
forma entro cui si esprime il potere ma non, proporzionalmente, la concentrazione delle mani entro cui quel
potere effettivamente viene esercitato e deciso. Più semplicemente, se c’è un’oligarchia
al potere (poiché istituzionalmente questa è stata legittimata) è sufficiente che
questa mantenga il consenso per poter durare. Gli strumenti del consenso allora
diventano funzionali al potere: non c’è
un interesse in sé sui contenuti del bene pubblico se non funzionali al
mantenimento di una certa immagine. Questa nuova realtà morale trasforma il
politico da “generale” (distaccato emotivamente, capace di esprimere totalmente
il paradosso del potere), in “diplomatico statista” (calcolatore e camaleontico,
mettendo al servizio le emozioni in base alle opportunità).
Il punto è che per
sganciarci davvero dal paradosso del potere, evitando che questo abbia infelici
ripercussioni collettive a partire da pietose mutazioni psichiche sul piano
individuale, occorre istituzionalizzare il depotenziamento del
potere. Come fare? Senz’altro dal
punto di vista istituzionale la democrazia diretta rappresenta un passaggio
ulteriore in questo senso, così come dalla monarchia si è passati alla
democrazia rappresentativa. Allo stesso modo, da un punto di vista aziendale, le
cooperative sono nate per controbilanciare la conflittualità di fondo della
lotta di classe, tra capitale e proletariato. Allora, da un modello di potere assoluto/impositivo
si passa a un modello partecipativo, transitando per l’attuale
che è, come visto, quello collaborativo.
Tuttavia c’è un
altro aspetto, ancora più profondo, da constatare. Nella storia ci sono sempre
state persone che apportano dei cambiamenti, hanno nelle mani il potere di
decidere e lottano per affermare le proprie strategie. Appunto, potremmo
chiamarli i monarchi, gli ecclesiastici di un certo tempo, i politici, gli
economisti e manager. Coloro che hanno il compito di portare avanti l’assetto
di forza del momento. D’altro lato ci sono sempre state persone che commentano
quella storia, apportandole un senso, dandogli nel bene o nel male e a diverso
titolo una valutazione. Potremmo chiamarli gli intellettuali. Ora, in alcuni
momenti, paradossalmente più nell’antichità che oggi, le due figure potevano
avere punti di contatto (si pensi ai “grandi saggi”): coloro che commentavano
erano anche coloro che avevano un qualche potere, sia riconosciuto
istituzionalmente che socialmente. Al contrario, con l’accrescersi della
complessità, e quindi della divisione del lavoro, tutto si è parcellizzato a
danno di una visione di insieme: da commenti olistici a una storia fatta di
contingenze di potere e di decisioni. Da visioni generali e profonde a un
crescente, cieco, tecnicismo. Così abbiamo sempre più delegato gli
intellettuali all’accademia e i decision
maker nelle arene politiche del pubblico ufficio. Il problema è che l’eccesso
di coinvolgimento genera mancanza di visione. Coinvolgimento e visione sono due
fattori inversamente proporzionali. Ma, cosa determina il coinvolgimento? Una
visione dettagliata, quindi circoscritta e tecnica della cosa. Cosa determina
la visione? L’impianto valoriale che a sua volta si nutre dei significati; in
ultima istanza sulla domanda di senso.
Nell’ottica
dialettica, di depotenziamento del potere come obiettivo, potremmo confrontare
il coinvolgimento con il potere esecutivo (l’operatività del far rispettare
certi rapporti di forza), mentre la visione con una sorta di potere legislativo,
ovvero con la filosofia morale sottostante che indaga quei rapporti; lo
stabilire le priorità dandogli un valore. Nell’assetto sociale attuale quest’ultimo
potere legislativo è diventato un’estensione dell’approccio tecnico; il
problema principale, risiede nell’incapacità di portare fino in fondo le
istanze morali e filosofiche di suddetto potere. Tale vizio fa sì che la
visione sia autoreferenziale, al
servizio di un certo assetto ideologico (nella situazione attuale
neoliberista). In realtà, la funzione prima e proattiva di un potere legislativo
strategico, che sappia fornire e problematizzare visioni più che limitarsi
reattivamente a recepire le esigenze del “business as usual”, sta nel fare metapotere:
nel dare forma alla sua natura di commento della sfera “esecutiva” e operativa.
Allora depotenziare
il potere è, di fatto, già una prima indicazione di come indirizzarlo, ovvero
attraverso il metapotere. Istituzionalizzare una dialettica interna all’esercizio
di un dato assetto di rapporti di forza. Certo, si potrebbe controbattere che oggi
è pieno di accademici dietro le spalle dei decision
maker, anzi spesso sono proprio loro a governare…e li chiamiamo i
tecnocrati. Ma, appunto, costoro sono talmente espressione della tecnica,
ovvero sono i professori di un certo establishment,
di una certa dottrina che è quella tecnica. Sono le figure che cerca il potere,
più che il potere a forgiare quelle figure. All’opposto, la vera accademia
applica il principio socratico della conoscenza “del sapere di non sapere”,
ovvero di rimessa in discussione dei paradigmi. Istituzionalizzare il “senato del
metapotere”, bilanciandolo alle prassi del potere, vuol dire mettere sullo
stesso piano, dialettico, l’esercizio e la forma del potere con la sua critica.
Questo passaggio è autenticamente informazione (ciò di cui si nutre il
dibattito e la deliberazione in una democrazia diretta), più che la retorica
delle democrazie rappresentative. Se questo bilanciamento non avviene è chiaro
come gli accademici che sono dietro ai decision
maker sono una loro emanazione, è chiaro come il potere esecutivo mette al
suo servizio quello legislativo. Il che è assurdo poiché il compito di quest’ultimo
è proprio quello di problematizzare quelle logiche e non di avallarle
irriflessivamente, diventando una funzione dell’esecuzione.
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