Quale innovazione?


Seguendo il presupposto evoluzionistico/darwiniano e del laissez-faire smithiano, emulare la natura alle sue leggi competitive è un bene in sé, che crea efficienza, sviluppo, innovazione, rafforzando tutto il sistema. Questo dogma è alla base del liberismo capitalista e non è possibile uscirne se non lo si affronta. È potente poiché fa diretto riferimento alla natura delle cose, vestendosi così di incontestabilità. Dietro la natura vi è una competizione latente, una sorta di “selezione naturale”, a cui si deve letteralmente “lasciare fare” affinché ci faccia evolvere, ovvero progredire. Abbiamo già evidenziato come tutto il fraintendimento risiede nella sovrapposizione del concetto di evoluzione e progresso, dimenticando le qualità necessarie all’adattamento. Per comprendere il passaggio in profondità occorre, anche qui, scendere alla radice del sangue che porta ossigeno al capitalismo, ovvero la moneta. Come nota Bernard Lietaer, economista teorico delle monete complementari, la sostenibilità di ogni sistema complesso deriva dal bilanciamento di efficienza e resilienza, possibile grazie a due variabili: diversità e interconnessione. La moneta, basata sull’interesse bancario del prestito, quindi sul debito, ben rappresenta la logica quantitativa e “industriale” dell’efficienza. Una monocultura che fa crescere il sistema ma che lo rende al contempo volatile e instabile. Il punto è che più diventa complesso più se entra in crisi rischia di minacciarsi, da un lato per le dimensioni raggiunte, dall’altro dal fatto che non ci sono alternative di diversificazione su cui il sistema può compensare. La logica efficentista diventa così una logica ostentativa, che entra nell’esagerazione delle cose, le assolutizza facendo di tutto una monocultura secondo l’assunto che “di più è meglio”, in fondo non era “too big to fail”?. Come si vede queste osservazioni, appropriate al sangue del capitalismo (la moneta) sono esportabili in ogni altro suo organo e approccio, proprio grazie alla cellula che sovrappone evoluzione e progresso, dimenticando l’adattamento, ovvero la resilienza. Ciò che conta è l’accumulazione lineare, per così dire “l’interconnessione della monocultura”, non un suo bilanciamento con la “diversità”. Mediante queste distorsioni la competizione e l’innovazione diventano le due qualità principali del capitalismo, ogni altra visione alternativa viene così decostruita poiché non garantisce sviluppo. Poco importa se la competizione assume un aspetto squilibrato e alienante, i lati positivi che apporta sono maggiori dei sacrifici che ci impone. Peccato che il sacrificio più grande che ci impone è proprio questa visione lineare e semplicistica, l’incapacità di pensare altrimenti le cose, esattamente l’opposto dell’innovazione. Qui si scopre la natura ideologica di tale pensiero, poiché invece di liberare costringe.   A tale proposito è curioso cosa accade alla parola rivoluzione.  Lo storico Guglielmo Ferrero aveva individuato l’indeterminazione del concetto, stretto tra una concezione spirituale di “uomo nuovo”, di rivoluzione interiore; e una concezione più politica dove c’è in gioco la messa in discussione delle convenzioni sociali (basti pensare alla rivoluzione francese e al comunismo). Oggi, nell’attualità capitalista, “rivoluzione” vuol dire “cambiare le regole del mercato”. Attenzione: non cambiare il mercato, ovvero la struttura capitalista che lo sostiene, ma, più banalmente e semplicemente, modificare il modo con cui si gioca la partita, che ha sempre le stesse macro regole di base. Ma innovare cos’è: cambiare le regole del gioco o cominciare una nuova partita nello stesso gioco? Questa cecità deriva dall’esserci concentrati solo sulla linearità dell’efficienza piuttosto che farla coesistere con la diversità. Diversità di pensieri, per cui innovare non è semplicemente migliorare dei prodotti che, grazie a un po’ di marketing, si fanno passare come rivoluzionari. No, innovare è innanzitutto mettere in competizione visioni del mondo differenti, aprirsi a possibilità altre. Ad esempio:
  • Un sistema politico più diretto e inclusivo contro uno rappresentativo
  • La coesistenza strutturale di più monete complementari rispetto a quelle istituzionali, basate sul debito e l’accumulazione
  • Ripensare i processi di globalizzazione (figli di una visione lineare da monocultura e non da biodiversità), focalizzandosi sulla dimensione municipale con tutto ciò che ne consegue da un punto di vista di partecipazione politica ed economica (i due punti precedenti)
Oggi queste visioni sono tabù poiché applichiamo alla natura visioni aberranti, e che paradossalmente pensiamo di imitare giustamente. Abbiamo mal interpretato l’assunto darwiniano relegandoci a una linearità ostentativa. Tutto questo non è solo una simpatica metafora, è la realtà. La distruzione della biodiversità che sta accadendo è figlia di una monocoltura mentale che esclude visioni e prassi alternative. Non è cattiveria è, come ogni ideologia, illusione. Siamo costretti all’inquinamento dell’illusione, persuasi che in questa linearità ostentativa facciamo innovazione e “rompiamo gli schemi”, “cambiando le regole del mercato”, creando “un futuro smart e uno sviluppo sostenibile”. L’innovazione allora diventa la salvezza ma: quale innovazione? Perché proprio ciò che pensavamo salvezza può rivelarsi una condanna. Beninteso, non è che fare delle innovazioni "intrasistema" non sia auspicabile e desiderabile, tutt'altro. Come è possibile però parlare di innovazione se anzitutto non siamo capaci di qualificarne il tipo e la portata?
La verità è che se non bilanciamo il paradigma alla base, appunto innovandolo attraverso una sua rimessa in questione, non ci rendiamo conto che tutta questa fantastica efficienza non è compensata dalla diversità. Ci rendiamo così volatili e instabili, meno resilienti quindi meno adatti a sopravvivere alla complessità che noi stessi generiamo.
Come notava Gragory Batson: “l’origine di tutti i nostri problemi attuali viene dal divario tra come noi pensiamo e come la natura funziona”.

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