Immenso "effetto rebound"


L’effetto rebaund compare spesso nelle ricerche sull’efficentamento energetico e in alcuni casi negli studi in ambito economico. Si possono offrire molti esempi di tale effetto:
  • Un classico caso di studio è quello di un’automobile più efficiente. Lì dove ogni chilometro percorso diventa più conveniente, si verificherà un aumento della velocità di guida o anche dei chilometri percorsi, fino a quando le esternalità positive rese dall’efficienza non vengono azzerate se non addirittura arrivano a peggiorare la situazione.
  • La stessa cosa può accadere con le lampadine a basso consumo energetico piuttosto che con un nuovo condizionatore. Dove la percezione di consumare meno e l’abbassamento unitario del costo ne aumentano la domanda, incrementando i consumi a livello aggregato.
  •  Nonostante l’intenzione positiva ed economica del car pooling, la sua pratica può rendere più vantaggioso intraprendere dei viaggi che prima non si sarebbero fatti, magari anche a svantaggio dei trasporti pubblici.

Insomma, proprio in virtù dell’efficienza acquisita si rischia di vanificarla per una questione psicologica (ci si sente rassicurati per il fatto che si sta consumando meno e quindi si finisce di consumare più di prima) e/o per una questione economica (la riduzione dei costi dovuta all’efficienza aumenta l’effetto sostituzione, allargando la domanda). In fondo, è per questo che si persegue l’efficienza, per avere un vantaggio competitivo che permettere di crescere.
A ben vedere l’economia capitalista, basata sul processo circolare di accumulazione e innovazione, è un immenso effetto rebound. Dicendo questo l’obiettivo non è demonizzare l’innovazione condannandoci a un’altrettanta insostenibile stasi, quanto sottolineare come non vi è sostenibilità nella sola sfera tecnica, se questa non è accompagnata da delle misure compensatrici, facendoci al contempo ribilanciare bisogni e priorità. Per questo la sfida della sostenibilità economica è culturale prima ancora che tecnica. Le esternalità negative ambientali accompagnano sempre le innovazioni, anche la più ecologiche, se è vero che, come afferma la legge di Say, “l’offerta crea la sua domanda”.

La storia dell’effetto rebound non è recente (data il 1865 da parte di Javons) e non occorre neppure enfatizzarlo troppo, visto che può essere facilmente sopravvalutato. Tuttavia quello che stupisce della situazione attuale è che lo si ignora completamente, infatti nel momento in cui si fa affidamento alla sola risposta tecnica per contrastare i problemi ecologici o anche sociali generati dal capitalismo, si ignora pericolosamente come tale effetto può erodere le efficienze che si credevano la soluzione. Non solo, se poi consideriamo la crescita intrinseca legata al modello economico capitalista ecco che la risposta tecnica è un palliativo di una questione ben più profonda. Anzi, ciò che è peggio è che questa rimozione dell’effetto rebound porta alla rassicurazione psicologica che il problema ecologico non esiste, visto che abbiamo la risposta. Basta solo aspettare qualche anno affinché tutti potranno continuare il “business as usual” in modo del tutto “green”.
Da ciò emerge come in un contesto complesso, dove le sfide e i paradigmi sono molteplici, una sola risposta (l’innovazione) non è sufficiente. Piuttosto, occorre qualificare questa innovazione, prima ancora che quantificarla. Occorre aumentare la biodiversità di risposte da mettere in campo: da quella tecnica a quella politica (contromisure per tamponare l’effetto rebound) e sociale (rivedere valori e bisogni all’insegna di una maggiore sobrietà consumista). 
Sopratutto cambiare prospettiva, per cui oggi: qualificare la marea quantitativa di innovazione, aldilà della sua sola produzione, è davvero “innovare”.

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