Dark Optimism
Il problema del cambiamento non è tanto un problema in sé,
bensì quanto questo comporta da un punto di vista sociale. Non di rado cambiare
i propri paradigmi e stili di vita significa inserirsi in un altro contesto
relazionale che porta ad allontanarci da quello passato; certo, a meno che il
cambiamento non è traghettato dal gruppo di riferimento. Questo è l’ostacolo
più grande al mutamento, tanto più grande nella misura in cui abbiamo da
perdere le relazioni, la reputazione, ciò che eravamo per gli altri. Questo ha
molto a che fare con la predisposizione al mutamento delle società, infatti non
si affermano certe logiche perché il contesto culturale di riferimento è in
gran parte legato a certe ideologie e decostruirle vuol dire marginalizzarsi ed
essere visti come “estremisti”.
Purtroppo il nostro destino è nell’imitazione poiché
pensiamo che nell’imitazione della maggioranza risieda il buon senso, quando in
realtà è esattamente l’opposto: occorre portare la maggioranza al buonsenso. Tale
fraintendimento nasce da qualcosa di positivo, ovvero l’amore che dimostriamo
verso le relazioni: il nostro essere inevitabilmente sociali. Questa socialità
può essere fonte di speranza, in quanto capacità di essere uniti e di
riconoscerci simili; quanto, al contrario, può portarci alla cecità, sia essa
delle fazioni e delle rivalità, che della resistenza al cambiamento, anteponendo
il senso comune al buon senso. Appunto, il dramma è che se la direzione del
senso comune (del “così fan tutti”) è sbagliata, rischiamo di non accorgercene
o semplicemente di ignorare il buon senso (ciò che davvero ha senso). La sfida
è, ancora più profondamente, tra ricerca del conformismo/consenso e della verità.
Per riportare la dicotomia su un terreno primordiale, filosofico, è tra
Glaucone e Socrate: tra chi
strumentalizza il vero per il consenso e, all’opposto, chi cerca la forza del
vero credendo che da questa scaturisca il consenso. Le ragioni per cui il
nostro “ottimismo è scuro”, come da geniale espressione dell’attivista inglese
Shaun Chamberlin, è che l’ottimismo della socialità umana, del suo essere
inevitabilmente relazionale, si scurisce pericolosamente lì dove ci riduce al
conformismo, all’inerzia intellettuale, alle idee di massa: facili da essere
manipolate e replicate. Come d’altra parte notava Gustave Le Bon nella Psicologia delle folle. Solo una
educazione deliberatamente critica può opporsi a questo subdolo pericolo che si
traveste di speranza. Per questo è così difficile cambiare, per rendercene
conto basta vedere le vite di ciascuno di noi, con i loro ideali spesso limitati
da innumerevoli vincoli. Per questo è così urgente rimettere al centro l’umanesimo
come principio critico.
Il tema non è “quanto è difficile cambiare, come
faccio?”, bensì: “non riesco a mettere in gioco la mia reputazione sociale…Quello
che agli occhi degli altri sono stato fino ad oggi!”. Non è quindi un problema
“tecnico” di modalità del cambiamento quanto della determinazione sociale dell’umano
“chi sono?”. Alla luce di questo, il cambiamento si manifesta non quando
scopriamo la verità ma quando questa ci
costringe a riconoscerla in modo indubitabile. Da qui Latouche si spinge a
parlare di paradigma della catastrofe,
per cui solo un indubitabile, evidente, collasso può risvegliare la consapevolezza
verso il buon senso umano (ed ecologico), messo in secondo piano dal senso
comune di una crescita = benessere. Sotto questo punto di vista l’operazione di
scoperta e poi condivisione della verità non è immediata, all’opposto è un
lento processo digestivo tanto più veloce nella misura in cui irrompono degli
eventi esterni che si impongono con forza al senso comune. Il problema è
che i tempi del cambiamento questa volta, in cui tra le altre cose è l’ecologia
ad essere al centro, non sono dettati dal termometro dei bisogni sociali,
quanto dal termometro, non più solo metaforico, del clima. Un termometro che non
aspetta noi per rendere visibili le sue conseguenze.
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