Se tuo figlio ti chiedesse: "perchè bisogna crescere?"
Le domande guidate
dall’ingenuità sono quelle a cui è più difficile rispondere poiché sono domande
fondamentali, ovvero ci riportano ai
fondamenti dei nostri presupposti.
Ebbene, cosa
rispondere a un figlio che, magari guardando un telegiornale che alterna come
prima notizia il leitmotiv “spettro
recessione” e come ultima “emergenza climatica”, ti chiede: “perché bisogna
crescere continuamente se stiamo distruggendo il pianeta con questa crescita?”.
Ora, si dirà che un’osservazione del genere non è affatto ingenua e scontata,
essendo l’equazione “crescita = inquinamento => distruzione del pianeta” è
ben lontana dall’essere debitamente affrontata e addirittura capita. Tuttavia
la constatazione di fondo: perché crescere? Resta e credo che possa mettere in
difficoltà ogni genitore medio, che onestamente si alza tutte le mattine
dirottando la propria intelligenza verso problemi lavorativi contingenti che
non ci fanno prendere una pausa riflessiva per scendere dalla corsa verso il “progresso”.
Già mi vedo molti
genitori che tentennano, come a dire: “Ma, come; bisogna crescere…Cosa vuoi
mettere in discussione? È sempre stato così, è per garantirci un futuro
migliore, affinché tutti possiamo avere un lavoro e incrementare la nostra
qualità di vita, per essere felici e avere benessere…Poi se non cresci gli
altri ti sorpassano, anche nella natura funziona così, c’è un sottile
equilibrio che fa evolvere tutte le cose verso un loro sviluppo…Poi i problemi
ambientali saranno risolti proprio attraverso lo sviluppo, che già è diventato
sempre più sostenibile. Insomma, crescere fa bene anche all’ambiente perché ci
aiuta a trovare dei modi più efficienti per produrre e consumare”.
Dietro questa serie di
affermazioni di apparente buon senso, poiché farcite di senso comune, si
nascondono innanzitutto due paradigmi essenziali che ci portiamo dietro dalla nascita
del capitalismo e, in generale, di tutta l’impostazione antropologica
contemporanea:
- La dottrina smithiana della mano invisibile, che sta dietro alla concezione dell’uomo economico e dell’economia tout court. Come è noto, questo assunto prevede che la somma dei singoli interessi individuali è benefica per tutta la collettività.
- Il concetto darwiniano della selezione naturale, che sta dietro alla tensione positivista del progresso, in particolare applicabile a tutto il dominio scientifico. Nella sua versione popolare questo assunto prevede che dalla natura vengono favorite (selezionate) le mutazioni più vantaggiose per il mantenimento della specie.
Di
fronte a questi presupposti (che tra l’altro gli stessi autori Smith e Darwin
si sono affrettati a contestualizzare e, se necessario, a “depotenziare” visto
il possibile impatto di questi assunti sulla morale e la socialità), è ovvio
che la spinta alla crescita è sostenuta perché fa bene alla società (presupposto
1) e la fa progredire (presupposto 2). Da notare solo come l’implicazione
morale di questa concezione nasce proprio da una cattedra di filosofia morale,
ovvero quella di Adam Smith che poi è diventata sempre più scientifica, anche
grazie allo sviluppo delle concezioni darwiniane. In fondo è stata la stessa
parabola dell’economia: da scienza sociale a scienza esatta.
Allora
possiamo rispondere alla domanda: “perché bisogna
crescere?”, con altrettanti due punti:
- Perché la vita è una competizione positiva. In passato la lotta si esprimeva attraverso le armi, poi attraverso la geopolitica, ora sempre più attraverso il commercio (l’economia). Insomma, si cresce perché siamo in un regime di guerra, d’altra parte è per questo che non possiamo fermarci: bel messaggio morale! Il fatto che la “competizione sia positiva” si accetta come lo “sviluppo è sostenibile”, ovvero attraverso un ossimoro ingiustificato. Infatti, quale competizione e fino a che punto? Esiste un break-even point (un punto di pareggio) su questa questione, così come l’economia stessa saggiamente ci insegna? Ovvero, un punto oltre il quale la competizione positiva diventa negativa? E poi, per cosa?
- Una volta che la ragione cede all’incertezza, al punto uno viene in sostegno il punto due, cioè il fatto che la natura ci dimostra come selezione è vantaggio adattativo, quindi evoluzione, quindi progresso. Quanti “quindi”, segno di troppe deduzioni ingiustificate! Infatti, in senso stretto evoluzione non è né sviluppo né progresso, piuttosto è adattamento. Questo vuol dire che se per sopravvivere decentemente, cioè per rendere il nostro benessere durevole, occorre decelerare, allora vuol dire che ci stiamo adattando a un contesto differente. Perseverare in una strada di progresso tecnico a prescindere (in cui magari si vede la ricetta per il problema ecologico, che la stessa tecnica ha creato) non vuole necessariamente dire evoluzione, anzi può addirittura essere una minaccia.
Nessuno
mette in discussione che occorre investire (quindi far crescere l’erogazione di
credito e di consumi) in determinati settori per migliorare la ricerca nell’efficienza
energetica e produttiva, ma ciò non vuole dire che la crescita in sé, su tutto
e per tutto, sia la ricetta per risolvere la crisi ecologica. Anzi, a una
decelerazione in certi settori dell’economia può corrispondere un’accelerazione
in altri settori, generatori di esternalità positive di lungo periodo. Un business case da valutare con
attenzione, attraverso l’intervento del settore pubblico, che quindi non si
risolve solo in più crescita per tutto il sistema. Ma soprattutto occorre
notare che gli ultimi quarant’anni persi nella ricerca di una risposta tecnica
al problema ecologico, ci hanno dato testimonianza che il problema ambientale
non è solo una questione ingegneristica e di innovazione, ma prima ancora culturale.
Deve cioè guardare a fondo in quei paradigmi, quei fondamentali, per capirne la
direzione. Anche perché, nella misura in cui il problema si fa sempre più grave
il ruolo della tecnica si riduce per lasciare spazio alla permeante questione
culturale che ci pone.
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