Fare marketing rimanendo brave persone – Parte 2


Conviene riprendere il filo del discorso intrapreso da Morici nel libro “Fare marketing rimanendo brave persone”, che, insieme all’altro “Fare i manager rimanendo brave persone”, credo sia paradigmatico dell’ambivalenza tra un certo sostrato imprenditoriale, intriso del capitalismo “as usual”, ma al contempo si fa carico di alcuni problemi, ecologici e sociali, che sotto certi aspetti possono venire contrapposti a quel regime consumista di accumulazione che ci ha condotto fino a qui. Segno di quell’ambivalenza è il fatto che l’autore, a partire dai titoli, gioca sulla difensiva, confrontandosi con delle opinioni del senso comune (ad esempio: marketing = consumismo, fare i manager = pensare solo al profitto).
Veniamo a questa interessante riflessione:

La vera domanda non è se sia giusto o meno cercare di vendere nuovi prodotti al posto dei vecchi. Credo che chiunque sarebbe d’accordo che sia giusto, per il progresso non tanto dell’economia quanto dello stesso ingegno umano, lasciare libertà di sorpasso, purché sia a sinistra, mettendo la freccia e rispettando il galateo automobilistico.
Il punto è piuttosto come si facciano a creare le condizioni culturali oltre che legislative perché il superamento del prodotto attuale da parte del prodotto nuovo non avvenga a spese del pianeta, dell’utilizzo sostenibile delle sue risorse, della comunità e del rispetto che la produzione deve avere dell’ambiente e per le persone. Le risorse del pianeta non devono essere usate e interpretare come “complemento oggetto” dello sviluppo, ma come soggetto primario dello sviluppo e del progresso dell’ingegno umano. Prodotti e pubblicità come manifestazione dell’ingegno e della creatività dell’uomo per l’uomo e non come strumento di uno sterile aumento della produzione a scapito dell’uomo.  

Andiamo con ordine:
1) Vendere nuovi prodotti al posto dei vecchi non è affatto giusto a prescindere, anzi, nella nostra situazione di opulenza probabilmente è sbagliato. Tant’è che secondo questa filosofia abbiamo creato i mostri dell’obsolescenza programmata.
2) Ma se anche fosse giusto, l’ingegno umano, attraverso il senso comune, ci dice che “l’ottimo è il nemico del bene”, così come il “miglioramento continuo è nemico della stabilità”. Non che si debba restare in una situazione retrograda di pigrizia, piuttosto capire come una cosa sacrosanta, come “il miglioramento”, se ostentata, come tutte le ostentazioni, conduce a una sua trasformazione intrinseca fino a snaturarne i principi positivi. Tutti i fenomeni fisici e biologici ci ricordano che la chiave è l’adattamento, ovvero capire come e quando ci si deve adeguare a un contesto che muta, piuttosto che procedere verso andamenti lineari e crescenti su una stessa logica (appunto, logica ostentativa). Se bisogna vendere sempre nuovi prodotti (ci mancherebbe: non per la sete di profitto e restare competitivi!), rendendo comunque obsoleto ciò che funziona, giusto per il gusto intellettuale di migliorare le cose, come si distingue questa presunta produttività come valore civico, da una produttività che è solo “uno sterile aumento della produzione a scapito dell’uomo”?
3) Come è possibile rispettare il galateo automobilistico, di “lasciare la libertà di sorpasso”, se il neoliberismo, ovvero la radicale riduzione di vigili dalla strada, è nel DNA dello stesso capitalismo di cui il marketing è il motore, per incentivare il desiderio (ovvero l’insoddisfazione) affinché aumenti l’accumulazione?
4) Il miglior modo per non usare le risorse come “complemento oggetto” è invertire la logica del: innovazione => obsolescenza => consumismo => problema ecologico; in: problema ecologico => innovazione => riciclo => sobrietà. Dove con sobrietà non si intende un ritorno al medioevo, piuttosto uno sviluppo mirato nell’innovazione ecologica ma anche degli stili di vita, che passano attraverso un riciclo che non è solo smistare due rifiuti nel corretto cestino, quanto allungare la vita utile delle cose, ripararle invece che gettarle. Come tutto questo sia conciliabile con un marketing che, all’opposto, incita il consumo, è da vedere. Allora diventa evidente anche qui come il buon marketing è quello che si depotenzia e si decostruisce, più che affinarsi permeandoci nella psicologia profonda (esattamente come la politica).
Insomma, un bell’estratto di cosa voglia dire “dissonanza cognitiva”, ambivalenza tra il perseguire il “business as usual” della crescita ma, allo stesso tempo, con un po’ di retorica ci si costruisce una facciata più etica e consapevole. A ben vedere, questo sì che è puro marketing per vendersi il concetto di “sostenibilità”.
                      
Ma Morici non è l’unico a pensare che nel marketing possa esserci una qualche forma di salvezza, la pensa così, anche se sotto una forma ben più strutturata e consapevole, anche Giampaolo Fabris nel suo “La società post-crescita”:

Sono persuaso che un diverso modo di intendere e praticare il marketing possa costituire un’efficace fattore di accelerazione nell’adozione di stili di vita orientati a un reale benessere, a un rapporto non conflittuale con l’ambiente. […] Se le fondamenta del marketing, la sua filosofia, il modo di rapportarsi al consumatore o al mercato cambiano strutturalmente, cambia radicalmente anche l’opportunità di un suo impiego in un’ottica post-crescita. Io definisco questo nuovo marketing societing e il neologismo non è soltanto un gioco di parole: parlare di society invece di market – con ciò che significa questo scivolamento terminologico intende imprimere al marketing un incisivo giro di boa.

Pienamente condivisibile, appunto, a patto che il marketing non sia più tale ma diventi societing.
Il marketing nel migliore dei casi è uno strumento, nel peggiore un fine che coincide con il profitto. Per cambiarne natura, come afferma Fabris, occorre cambiarne il fine e il fine si cambia aldilà della logica dell’accumulazione.
Come ebbe modo di affermare Albert Hirschmn nel suo Felicità privata e felicità pubblica:

Il mondo che sto tentando di indagare in questo saggio è quello in cui gli individui pensano di desiderare una cosa, ma poi, non appena l’hanno ottenuta, scoprono con costernazione di non desiderarla affatto quanto pensavano o di non desiderarla per nulla, e che ciò che ora desiderano realmente è qualcos’altro, qualcosa di cui in precedenza erano ben poco coscienti. Noi non agiamo mai in relazione ad un’ampia gerarchia di desideri stabilita da qualche psicologo intento ad esaminare i molteplici obiettivi o “bisogni” dell’umanità, ma invece, in ogni momento della nostra esistenza reale – e questo è spesso vero anche per le società intere – perseguiamo alcuni obiettivi che poi sostituiamo con altri.

Ebbene, il marketing, basato sul “libero market”, si insinua in questa fragilità, esasperandola e aggravandola. Il che pare assurdo, se pensiamo che la stessa scienza economica si basa sulla perfetta razionalità degli agenti economici (Homo oeconomicus), per cui si giustifica il fatto che il “market sia libero” e non sottoposto a vigili.
Ma allora, l’uomo economico è razionale o emotivo? No, perché se è razionale non ha senso modellarlo attraverso il marketing, ma se è vero che è emotivo non ha altrettanto senso lasciare il mercato libero di distruggere la società. A meno che non si voglia sostituire quest’ultima con il market(ing). Allora la contraddizione assume tutta un’altra, inquietante, luce.

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