Fare marketing rimanendo brave persone – Parte 1


Dopo la lettura (e il mio relativo post su questo blog) del testo di Giuseppe Morici “Fare i manager rimanendo brave persone: Istruzioni per evitare la fine del mondo”, ho deciso di intraprendere la lettura parallela: “Fare marketing rimanendo brave persone”.
Quello del marketing è un tema cruciale, poiché è lo strumento primo di “storytelling”, di creazione di desideri e di contemporanea inculturazione.
Vorrei solo commentare alcuni spunti che del libro mi sono sembrati interessanti:
Morici inizia con l’affermare:

“Per etica del marketing, più semplicemente, intendiamo la ricerca e il mantenimento di un senso complessivo profondo di ciò che facciamo quando facciamo marketing, non in quanto fine a se stesso, ma in quanto inserito in un contesto più ampio, in cui l’uomo, la sua vita, le sue relazioni e la società intera vengono costantemente tenuti e messi in primo piano.”

Ma, a quale tipo di senso complessivo vuoi che risponda il marketing? La storia ci dimostra che il senso dell’uomo e dei suoi legami sociali è proprio quello di prescindere dal consumismo. Al contrario, sempre la più recente storia capitalista ci dimostra che la dimensione del marketing è fatta di una persuasione che, avendo come obiettivo l’ostentazione della crescita (di cui stranamente Morici in tutto il libro non parla), conduce all’ostentazione consumista.
Il marketing non segnala semplicemente la presenza di un prodotto, informandoci sulla sua natura ma cerca in aggiunta di convincerci. L’informazione si trasforma in tecniche coercitive, il problema è nei suoi fondamentali, nel fine. A proposito, è interessante studiare le pubblicità di un secolo fa e vedere quanto fossero più ingenue rispetto a quelle di oggi, ovvero quanto fossero più informative perché più ingenuamente persuasive. Al contrario, oggi la pubblicità fa appello al nostro profondo espropriandoci dal senso più che preservarlo (processo altresì noto come alienazione), in questo non è difficile capire come il marketing presti il fianco, generando, innumerevoli bisogni indotti ponendosi su un piano emotivo. Ma questa degenerazione (più che generazione) è potuta accadere nella misura in cui la crescita dei bisogni primari è sfumata sempre di più in quella legata agli “status symbol”, per non parlare dei “brand”.
Per alimentare il motore della crescita occorreva progressivamente creare una cultura consumista, che desse voce alla persuasione dell’informazione più che al contenuto dell’informazione stessa. Una volta raggiunti i limiti dei consumi ci si è svincolati sempre più dalla natura del prodotto, dalla sua funzionalità, per approdare alla sua “poetica”, al suo storytelling: al potere evocativo delle cose. Attribuire al marketing le qualità della poetica e del dominio umanistico, come fa Morici, non lo nobilita affatto, anzi ne testimonia la sottigliezza mistificatoria di cui bisogna diffidare. Strumenti umanistici, dalla psicologia alla narrazione poetica, nati per comprendere oggettivamente meglio l’uomo e il suo senso, vengono traslati per degli obiettivi che così alti non sono, per fini votati proprio a ciò che dal senso ci aliena, sprofondandoci nel materialismo.
Fino a prova contraria, il successo del capitalismo è stato di far coincidere il benessere e la felicità con il materialismo consumista. Altrimenti non si spiegherebbe come mai abbiamo così sete di consumo nonostante questo non apporti più alcun benessere aggiuntivo (si veda il paradosso di Easterlin). È il marketing che ha trasformato così tanto il consumo in simbolismo da dargli un’altra connotazione: da bisogno e funzionalità, a permeante affermazione sociale fino a status e riconoscimento. Il dramma è che questo feticismo delle merci (come lo ha profeticamente chiamato Marx), si è traslato da mezzo a fine. Questa deriva e banalizzazione è stata possibile grazie al marketing. Grazie al marketing possiamo venirne fuori, questo sì, ma a patto che il marketing stesso neghi ciò che è stato fino ad ora: da fine votato al profitto a mezzo per la decostruzione di quest’ultimo.
“la comunicazione delle marche e il loro potere simbolico soggioga le persone-vittime, che per leggittimarsi agli occhi del gruppo  si sentono obbligate ad adottare il brand. Non voglio certo negare che questo accada o che accada troppo spesso.
Ma lo stesso argomento può essere visto in modo positivo. Le marche offrono racconti, cui le persone aderiscono per strutturare le loro identità e dare siognificato a interi pezzi della loro vita.”

Appunto, che offrire identità e senso attraverso i prodotti sia una cosa positiva? Se questo avviene non è forse perché delle strutture di senso forte si sono decostruite, lasciando spazio a un individualismo incapace di saziare i suoi desideri? Una volta, quando Morici parla nostalgico dell’epoca dei vecchi imprenditori, non si riceveva identità e senso da altre cose? Che forse questo crescente consumismo ha colmato il vuoto della perdita del senso di comunità, in una società secolarizzata e postmoderna, senza più alcun assoluto in cui credere? Che forse  questo consumismo non offra che surrogati di significato?...che il marketing, come in un circolo, crea e contribuisce a sua volta a rinforzare. Ebbene, questo sarebbe il lato positivo del marketing e di un consumismo che fa rima con marerialismo? La verità è che se ci accontentiamo di storielle e dei racconti dei “brand” dobbiamo celebrare il funerale di tutto ciò che in passato, nel bene o nel male, davvero si sostituiva a essi come fonte di significato e identità.
Esistono due strade per il marketing: continuare il business as usual o decostruirsi, ovvero riducendo il più possibile le cose dal loro simbolico valore di scambio a valore d’uso. E questo soprattutto in un’epoca in cui la creazione e l’innovazione degli antichi imprenditori di cui fa il plauso Morici, si riduce spostando l’attenzione proprio sul marketing, per enfatizzare a idea geniale un semplice optional aggiuntivo. Rendendo vecchio e poco desiderabile il prodotto che fino a ieri era “alla moda”.
Il punto, ancora una volta, è capire qual è il fine del marketing, perché solo l’obiettivo lo guida, nobilitandolo o meno. Più si riduce l’innovazione e la sete di profitto si alza (complice la competizione mondializzata), più il marketing da mezzo slitta in fine.


“Se si intende il marketing come narrazione rispettosa e non come spietato convincimento, si può recuperare al nostro mestiere una sua antica nobiltà. La nobiltà che gli deriva dai padri fondatori del marketing, che non sono i professionisti delle segmentazioni ma i grandi imprenditori. Quei capitani d’impresa, che raccontavano in ogni angolo del mondo storie affascinanti sui loro prodotti, sulle loro meravigliose caratteristiche, sulla qualità della loro produzione, delle loro materie prime.”

Ma, se così è, perché lo stesso Morici non torna a fare marketing come si faceva in “quell’antica nobiltà”? Se vediamo la catena del valore di Michael Porter ci rendiamo subito conto cosa è importante, “core”, per un’azienda. Nelle attività primarie più vicine al margine ci sono il marketing e le vendite con i servizi postvendita al consumatore.
Di nuovo, tutti hanno bisogno di una storia, ad esempio anche le religioni sono state per secoli fonte primaria di storytelling. Vogliamo forse mettere sullo stesso piano (ripeto, nel bene o nel male) una storia ideologica, sia essa politica o religiosa, con una storia consumista? Rispondono entrambe allo stesso bisogno, alle medesime tensioni? Di conseguenza, hanno la stessa dignità? Poi, soprattutto, lo stesso obiettivo? La catena del valore rappresenta bene la direzione: il margine. Certo, se poi annettiamo il concetto di margine a quello di valore tout court, l’inizio della fine è arrivato. Basta ritornare allo schiavismo per ridare una contropartita economica al valore di una vita umana.
Questo marketing “generativo” di cui parla Morici non è di certo disinteressato, quindi nel migliore dei casi orienta (sempre meno a dire il vero, lasciando spazio alla sua natura coercitiva) nel peggiore manipola. Appunto, il marketing degenera perché per forza di cose è piegato a un fine che ne fa ostentare la “reason why”, quando da informativo diventa persuasivo si istilla nel dominio dei valori profondi. La competizione, in una logica di accumulazione, lo fa degenerare.
È questo lo strabismo magico del buon marketing, che, da un lato, deve narrare storie coinvolgenti all’essere umano in modo che egli aderisca al racconto e, dall’altro, deve far sì che quell’adesione si trasformi in acquisto di un prodotto da parte della persona che in quel caso si fa sì consumatore.
Un marketing che si rivolga solo al consumatore per convincerlo a comprare un prodotto al fine di soddisfare un bisogno senza coinvolgere prima l’essere umano attraverso narrazioni che lo aiutino a costruire senso, non è inutile, ne è pieno il mondo.  È solo un marketing più “superficiale”.

Mi chiedo se Morici in questo caso, con tutto questo giro di parole, non stia facendo marketing, teso semplicemente a testimoniare il fatto che il marketing “raffinato” (non quello “superficiale”) si deve rivolgere all’umanità, al piano valoriale della persona, mentre l’altro si rivolge solo al consumatore. Appunto, troppo diretto e banale ridurre l’umanità in consumismo, ovvero in continua ricerca di desiderio mai appagato, meglio farlo indirettamente, modificando i valori e i significati stessi. Meglio essere più subdoli, così non c’è nemmeno bisogno di fare appello alla parola consumo e consumismo, in fondo cosa significano? Come l’autore stesso dice, cosa sarebbe una saponetta se non si consuma? Ebbene, cambiamo l’antropologia e ridisegnano la cultura, superando quel banale materialismo che cercava di convincerci di comprare dei semplici prodotti. Cambiamoci direttamente la testa, i valori: l’anima, affinché di umano rimanga solo il termine a cui si fa riferimento per giustificarne il decadimento.
No, non compriamo solo prodotti ma sogni, i desideri sempre voluti e mai raggiungibili davvero dei “brand”. A ben vedere, in questo scenario a essere privo di significato non è il termine consumismo, che si cerca di astrarre e depotenziare (come i mafiosi fanno con il termine mafia), ma quello di uomo. Infatti, così come per imbrogliare bisogna conoscere la legge, allo stesso modo: “È tempo che sono convinto che chi vuole fare marketing dovrebbe sapere un po’ meno di economia e molto di più di psicologia”. Ebbene, di questo marketing non ci sarebbe da diffidare? Non stupisce allora che si approdi anche al neuro-marketing, ovvero a tutti quei sistemi che rendono la persuasione talmente pervasiva da pretendere che ci cambi la biologia celebrale, scovandone i punti deboli. È questa la degenerazione del marketing e la sua parabola.
Una parabola che coincide con i nostri mali, per questo Latouche parla di “decolonizzare l’immaginario”.
Alla prossima puntata.

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