Quale responsabilità sociale d’impresa?
Occorre ritornare sui pilastri dell’economia e
della cultura contemporanea (visto che le due cose coincidono sempre di più),
ovvero l’azienda.
Interessante a proposito è il fenomeno del “Corporate
Social Responsability” (CSR), in breve:
quell’ambito entro il quale le aziende si mostrano interessate e preoccupate
alle esternalità che producono verso l’ecosistema ambientale e sociale. Non di
rado si fa sempre più riferimento “all’etica d’impresa”, ai codici etici,
appunto, alla responsabilità sociale. Senz’altro qualcosa di positivo, che però
dimostra, ancora una volta, la necessità di reagire a quella “mano invisibile”, a quella neoliberista “marea che alza tutte le barche”, fautrice di tanta
deregolamentazione. Un fenomeno interessante che, purtroppo a essere onesti,
segue la linea dell’ossimoro, della contraddizione. Infatti, nell’economia della conoscenza, lì dove il
fattore marketing riveste un ruolo centrale, il CSR diventa un modo per “vendersi”
più che autentica responsabilità. Esattamente come nascondersi dietro la “green
economy” e lo “sviluppo sostenibile” rassicura le coscienze di tutti che in
fondo il proprio operato è per una giusta causa. Per carità, si dirà, meglio
questa piccola dimostrazione di sensibilità che niente. Certo, ma il rischio è
che si confonde l’impressione di fare qualcosa con il farla, soprattutto in
tempi in cui le azioni che si mettono in atto da parte un certo sistema non sono
commisurate ai problemi che quello stesso sistema ha generato e che, per quanto
indirettamente, continua a generare. D’altro canto il CSR segue esattamente il suo sviluppo storico. Sviluppato e consolidato nello “Strategic Management:
a Stakeholder approach” di Freeman, del 1980, quasi per rispondere
all’aridità di fondo, pragmatica e almeno meno ipocrita, di Milton Friedman in “The Social
Responsibility of Business is to Increase its Profits” apparso sul
New York Times Magazine dieci anni prima. In pratica, nella sua Teoria
degli shareholders Friedman (niente di meno che un premio Nobel dell’economia),
afferma che “business
of business is business!”. Quindi la vera responsabilità sociale d’impresa
è incrementare il profitto degli azionisti, come farlo è solo una questione di legge non certo di etica! Di conseguenza se i CSR servono per mettersi
al riparo da critiche ambientaliste o di attivisti, nell’era dell’economia
della conoscenza in cui il marketing non è comunicazione del prodotto ma dei
suoi “valori”, ben venga. Lì dove marketing non è più un accessorio al bene, ma
il bene stesso: la creazione di senso. Certo, in un’epoca in cui si è
decostruita ogni metafisica non poteva che riappropriarsene il consumo, facendo
sognare. Ma questa, dell’economia della conoscenza e del suo marketing, è un’altra
storia.
La riflessione
qui si limita solo a far notare come il marketing (funzionale al profitto del
privato più che alle sue reali esternalità) di un CSR opzionale e deregolamentato,
può vanificare le sue positività di fondo. I CSR non impongono alcun tipo di
controllo o costrizione se non quelli autodeterminati dall’organizzazione
stessa, esattamente come l’accordo di Parigi sul clima non è vincolante.
Viene
da chiedersi se tutto questo non sia una forma di facciata che serve a dare l’immagine, il
marketing, al driver che muove davvero l’economia: il profitto e la sua
crescita. Purtroppo “Al lupo! Al lupo!”, anche le migliori intenzioni possono
essere fraintese lì dove molti altri fatti vanno in un’altra direzione. Tutto ciò per dire che nessuno
mette in discussione la bontà di molti CSR ma il sospetto di
strumentalizzazione viene, lì dove nell’arena capitalista globale, di fatto, è il profitto
a contare.
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