L'azienda di domani


In un precedente post (fare i manager rimanendo brave persone) si è visto come le aziende, all’interno dell’economia di mercato capitalista, siano soggetti economici con una responsabilità sociale. Ovvero, se il driver è la logica dell’accumulazione, le “risorse” umane e il loro bacino relazionale sono materie prime funzionali alla competizione per il profitto.
In un altro post (alternative concrete alla crescita) si sono indicate delle alternative concrete per una società post-crescita, attraverso degli scenari macroeconomici, in particolare grazie a uno studio di Peter Victor.
Ora, unendo questi due elementi: come immaginare l’azienda del futuro? Non sfugge la contraddizione: se l’azienda di capitale è un soggetto privato che punta all’accumulazione di capitale, come può inserirsi all’interno di un contesto a zero crescita? Infatti, la competizione per la crescita del profitto è una spirale che è causa e vittima del circolo vizioso che genera. Imporre un limite alla crescita vuole forse dire imporre un limite anche ai profitti? Come tutto questo può prendere forma in un’economia di mercato basata sulla competizione? La storia capitalista ci dimostra che la competizione è un acceleratore che, se lasciato libero di deregolarsi, genera delle pericolose distorsioni.
In realtà conciliare scenari di post-crescita con l’economia di mercato basata sulla libertà competitiva non è affatto impossibile, anzi da circa un paio di secoli conosciamo una forma di impresa che ai suoi albori è nata proprio con questo intento: la cooperazione.

Il capitalismo nasce nel momento in cui, progressivamente con la rivoluzione industriale, l’economia di mercato non serve più il bene comune bensì il bene totale (la mano invisibile smithiana dove le due cose si fanno coincidere). In questa visione l’economia di mercato ha come fine il bene totale di chi investe nel capitale e il bene totale può essere tale anche a scapito degli altri, appunto con la rassicurazione che la marea alza tutte le barche, da quelle piccole a quelle grandi. Se nel bene comune si ha una pluralità di attori in concorrenza ma a cui è garantita la libertà di potersi più o meno affermare, nel bene totale si rischia di essere schiacciati dalle forze del capitale più forte. Paradossalmente l’eccesso di libertà a cui fa da sfondo il bene totale comporta l’affermarsi di un monopolio e dello sfruttamento, ovvero di tutte le degenerazioni a cui si presta un potere crescente. Al contrario, il bene comune accetta la consapevolezza che occorre preoccuparsi anche di preservare lo spazio d’azione delle barche più piccole, se si vuole rendere sostenibile la marea economica. Infatti, se la cieca fede di un innalzamento “totale” della ricchezza, senza prendere in considerazione la sua dimensione “collettiva/sociale”, non funziona più è la ricchezza dei ricchi a essere minacciata. Quando la marea non si alza più lo spettro della lotta di classe segnata dalla disuguaglianza si riaffaccia. Domenico De Masi ben sintetizza nel suo libro Mappa Mundi (2014) l’evoluzione dei “rapporti di produzione”: “nell’economia feudale il contadino e l’artigiano vendevano la loro merce (M), ne ricavavano del denaro (D) e con esse acquistavano altre merci (M). Nell’economia industriale il capitalista investe il suo capitale, il suo denaro (D) per comprare materie prime e forza lavoro, cioè merci (M) e, vendendo queste, produce nuovo denaro (D). Nelle fasi di crisi economica e nell’economia postindustriale, di cui Marx annusava già l’avvento, il risparmiatore investe il suo denaro (D) per comprare altro denaro (D) e rivenderlo per guadagnare ancora più denaro (D). Così l’economia passa da reale a finanziaria, riducendo percentualmente e proletarizzando la classe medi, allargando ancora di più la forbice tra ricchi e poveri, accelerando ulteriormente la caduta tendenziale del saggio di profitto.”

La cooperativa nasce proprio in quella fase di transizione al modello industriale, quando le piccole botteghe artigiane iniziavo a essere minacciate da un capitale sempre più forte attraverso le società per azioni. Non è un caso che industriali come Engels e Robert Owen, consapevoli degli sfruttamenti e disuguaglianza che il capitale nascente stava generando, si prodigano nel trovarvi risposte sociali. La figura “dell’imprenditore sociale”, che nel caso di Engels si associa addirittura al comunismo e in quello di Owen alle rivendicazioni sindacali, stride con il giorno d’oggi. Un oggi che, delegittimando la lotta di classe attraverso la dissoluzione del concetto di “classe” stessa, ha liquefatto la contrapposizione storica tra detentore di capitale e salariato. Una condizione che Marx non si sarebbe mai atteso e che ha determinato il fallimento della sua previsione di implosione del capitalismo. In realtà quest’ultimo si è evoluto e adattato e oggi la minaccia maggiore alla sua logica è rappresentata prima di tutto dall’ecologia più che dal salariato. In fondo la natura ha dei limiti superati i quali non si torna indietro, la cultura invece è un oggetto più facilmente manipolabile.

L’approccio cooperativo è stato ben riassunto da George J. Holyoake quando afferma:
“I capitalisti salariavano il lavoro, pagavano il suo prezzo di mercato e si attribuivano tutti i guadagni. Il lavoro cooperativo propone di salariare il capitale, pagarlo a prezzo di mercato e di attribuirsi tutti i guadagni”.
Come notano Stefano e Vera Zamagni nel loro libro La Cooperazione: “il discrimine ultimo fra i due tipi di impresa è nella differenza tra agire e fare. La persona agisce quando compie un’azione in vista di uno scopo che lei stessa ha scelto. La persona che fa, che opera, invece, compie un’azione prescritta da altri di cui non è detto che conosca gli scopi e anche quando ciò fosse, non ne sarebbe comunque responsabile. Ebbene, mentre il lavoratore dipendente opera ed è responsabile solo della modalità del suo lavoro, il socio cooperatore agisce e perciò è responsabile anche della finalità del suo lavoro”.

Insomma, un approccio di riappropriazione e partecipazione in contrapposizione a quello di delega e separazione (Marx avrebbe parlato di alienazione) che ricorda la stessa frattura che c’è in ambito politico tra la democrazia rappresentativa e quella diretta. Nella società della crescita, sul piano politico i cittadini si riducono a dei “consumatori/elettori” che delegano il potere a qualcun altro, parallelamente sul piano lavorativo sono dei salariati che rimandano il risultato della loro opera al management (che di certo non scelgono), piuttosto che essere dei soci.
L’emarginazione a cui è relegata la cooperazione è testimonianza del fatto che viene vista come una forma “inferiore” del fare impresa. Naturalmente, nella concezione capitalista dell’economia di mercato la cooperativa non può che ritagliarsi uno spazio marginale. Per potersi affermare dovrebbe mostrare la stessa aggressività che il capitalismo mostra nell’arena della sua competizione. Per sopravvivere in queste condizioni la cooperazione è a rischio, poiché in quest’ottica: “cooperation means business e business is business”. Ma la cooperazione non può essere in nessun senso commensurabile all’azienda capitalista poiché, come detto, le è sotteso un altro paradigma: è aldilà del capitalismo ma all’interno dell’economia di mercato. Per questo si configura come alternativa al capitalismo in una società post crescita, così come la politica nel momento in cui riavvicina la sovranità alla sua forma locale e diretta. Se la globalizzazione ha comportato la crescita e viceversa, autoalimentandosi, non può essere che per una riappropriazione della comunità locale a “km zero” che si può immaginare una post-crescita.

Ecco alcuni radicali cambiamenti di paradigma che segnano tutta l’incommensurabilità delle due imprese e dei rispettivi modelli di società a cui rimandano:





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