“La Democrazia diretta vista da vicino” – risposte concrete
Questo è il titolo
del libro di Leonello Zaquini, nel quale mi sono imbattuto non troppo tempo fa.
L’autore, emigrato in Svizzera, offre diversi spunti a partire dalla sua
esperienza pratica su come può funzionare un modello democratico di questo tipo
in un paese di certo non piccolo (quasi 8 milioni e mezzo, organizzato a
livello confederale). Un testo/esperienza che ho trovato interessante poiché
l’autore non era originariamente interessato di politica (è un ingegnere), “si
è scoperto” interessato a contatto con l’alterità dell’approccio svizzero.
Quando si parla di
politica, di crescita, di economia, è facile criticare senza offrire
alternative. Come nel caso di un precedente blog: “alternative concrete alla
crescita”, qui vorrei offrire alcuni spunti per portare la discussione della
democrazia “dal bar” alla concretezza.
Il libro di Zaquini
è interessante poiché, oltre ad affrontare tutte le possibilità di democrazia
diretta (ad esempio, dai referendum obbligatori a quelli facoltativi),
affronta, attraverso vicende concrete, la cultura d’indipendenza e autogestione
alla quale lì sono abituati. Non è un caso che tutto un capitolo è riservato
alla storia Svizzera, solo per dare un’idea di come si è sviluppato questo
strano mix al cuore del continente europeo ma al di fuori della Comunità
Europea, in cui si parlano almeno 5 lingue. Testimonianza del fatto che la
democrazia diretta è prima di tutto cambiamento culturale e sua promozione è l’Italia,
dove nella sua Costituzione sono previsti strumenti referendari che permettono
di proporre leggi e fare petizioni. Tuttavia si tratta di strumenti ben poco
utilizzati, un po’ per la scarsa dimensione associativa e il ruolo di delega a
cui si è relegato l’elettore, un po’ per gli strumenti stessi, a volte
difficilmente visibili, promossi e “utilizzabili”.
Quando si parla di
democrazia diretta sul modello svizzero (tenendo conto che vi sono anche altre
forme in alcuni stati USA), se ne possono valutare anche i limiti.
Ad esempio:
1) Alti livelli di astensione: è difficile che
un referendum in svizzera possa superare il 50%. Non solo, per permettere che
vengano prese le decisioni non vi è quorum, evitando così che le
astensioni valgano come un “no”.
Dunque, da un lato non è detto che un basso livello di
partecipazione denoti un fallimento, proprio perché votare un referendum è
esprimersi nel merito di un particolare argomento: meglio non votare, se non si
sono maturate idee forti, piuttosto che votare per dovere. Anzi, tutto ciò
riflette la consapevolezza di esprimere la propria opinione, aldilà di un
quorum che fa pesare le astensioni. Una dinamica comprensibile, se si pensa che
la cittadinanza è spesso chiamata ad esprimersi e tutte le volte, su ogni
argomento, non ci si può aspettare un’affluenza di massa. Anzi, considerati
questi aspetti la media svizzera di partecipazione ai referendum è abbastanza
alta. Inoltre, incentivare le persone all’impegno civico, quindi a una maggiore
partecipazione, è sintomo di una certa cultura. Di conseguenza, per cambiare la
consapevolezza alla partecipazione occorre una determinata educazione. Non si
può pensare di passare da un modello distante di politica a uno più diretto
senza preparare una transizione di questo tipo, giudicando poi l’inadeguatezza
di quest’ultima se non se n’è preparato il passaggio.
D’altra parte, la critica che si può offrire alla
mancanza di un quorum è quella di
lasciare le decisioni a una ristretta minoranza, con tutto ciò di negativo che
ne deriva. Si potrebbe controbattere che è esattamente ciò a cui la democrazia
rappresentativa ci ha abituato attraverso il sistema lobbistico, in cui la
classe politica è costantemente condizionata dai gruppi di pressione. Tuttavia,
seguendo questa critica, è anche vero che il rischio dei referendum svizzeri è
quello di essere manipolati e strumentalizzati per dare una certa visibilità a
determinati partiti. Ciò detto, credo che i problemi di un sistema del genere
siano sempre meglio gestibili rispetto a quelli creati dalla democrazia
rappresentativa, che sotto questo punto di vista si presta a molte più
distorsioni. A tale proposito, per evitare questo genere di fenomeni, occorre
insistere sulla decentralizzazione del
potere e, parallelamente, su una cultura
della partecipazione. Le due cose naturalmente viaggiano di pari passo.
Come dice Zaquini: “L’associazionismo è fondamentale per il funzionamento della
democrazia diretta”; ma, per sviluppare associazionismo, occorre educazione e tempo, aldilà del produttivismo. Per questo Murray Bookchin nel suo
“Democrazia diretta” (2001) suggerisce
tre pilastri:
1) municipalità su statalismo
2) confederazione (municipalità che si parlano per
risolvere problemi comuni)
3) educazione al
senso civico
2) Corte costituzionale per il controllo dei referendum. La libertà della democrazia diretta, di proporre potenzialmente qualsiasi
tipo di cambiamento, può portare a evidenti paradossi per cui, in particolari
circostanze, a negare determinati tipi di diritti. Ad esempio, in Svizzera è
per tale ragione che si è dato il diritto di voto alle donne relativamente
tardi rispetto a molti altri paesi sviluppati. Addirittura vi possono essere
delle forme di regressione, come l’interdizione della costruzione di minareti.
Insomma, democrazia diretta può voler dire tanto emancipazione quanto ritorno
al passato. Come nota lo stesso Zaquini, a tale proposito non è difficile
immaginare il controllo e l’accettazione dei referendum da parte di una corte
costituzionale indipendente che, analogamente alle tematiche costituzionali,
possa approvare e rifiutare la proposta di referendum in base alla conformità o
meno a una carta dei diritti.
Sempre sul versante
delle critiche, nella prefazione al libro di Zaquini, Luigi Bobbio esprime
alcune riserve sulle soluzioni che la democrazia diretta può apportare; in
particolare un difetto sarebbe:
“l’immediatismo”, ossia l’idea che la
volontà dei cittadini debba potersi esprimere in forma diretta senza le
mediazioni riflessive costituite dai parlamenti, ma anche dai giornali, dagli
opinion makers e dagli esperti.
In realtà la democrazia diretta ha un
grosso difetto: è un metodo decisionale di tipo aggregativo, nel senso che le
opinioni si contano allo scopo di stabilire qual è l’opinione della
maggioranza. Le preferenze dei cittadini sono considerate come un dato di fatto
che va semplicemente rilevato. […]
Secondo questo punto di vista l’essenza della democrazia non consiste nella
conta dei voti (come viene in un sondaggio o in un referendum), ma nel
dibattito pubblico attraverso il quale le opinioni si definiscono, si
confrontano, si precisano.”
In realtà lui stesso si risponde a queste critiche nel momento in
cui afferma che: “nella democrazia, come sottolinea Zaquini (e su questo punto
sono completamente d’accordo con lui) la decisione è un processo, spesso
accidentato, contorto e con colpi di scena in cui ciascun pronunciamento (da
parte del parlamento, del governo o dei cittadini mediante referendum) è solo
un passaggio, discutibile e revocabile […] È il dialogo non il voto a fare la
differenza”. Ma la natura di processo,
tra più attori, di maturazione delle scelte politiche non è proprio la sua
dimensione di dialogo?...Non solo, su questo punto bisognerebbe di nuovo
tornare ai due pilastri di cui si parlava: decentralizzazione
del potere e cultura della
partecipazione, su cui ci sarebbe molto da dire.
Un’altra
considerazione da fare, di cui spesso non si parla molto, è studiare dei
meccanismi di revocabilità dei mandati politici. La governance politica del bene pubblico è costituita, come tutte le
gestioni, da una parte amministrativa e da una strategica, di sviluppo. La
democrazia rappresentativa, delegando il potere totalmente a una classe
dirigente, rimanda tutte le scelte a quest’ultima. Al contrario, la democrazia
diretta trasforma lo spazio dei rappresentanti politici in amministratori,
ovvero in gestori degli strumenti che garantiscono un equilibrato dibattito
pubblico. Le scelte politiche dovrebbero essere il frutto di quel dibattitto.
Ciò non toglie che la politica (e i suoi rappresentanti) sia un fondamentale
attore di tale dibattitto, che è il primo ad avere il diritto e il dovere di
apportare cambiamenti di sviluppo nella vita civile; condivisi con la
cittadinanza attraverso i sistemi referendari e, prima ancora, di elaborazione
e maturazione delle opinioni attraverso prossimità e confronto.
3) Ultima osservazione
critica sono i tempi della democrazia diretta, che spesso viene vista come
lenta e macchinosa. Certo, è un sistema che si può rivelare tanto veloce
(scevra, com'è da impasse strettamente
partitiche) quanto lenta (preparare un referendum e maturare delle opinioni non
è sempre cosa facile). È tuttavia indubbio che, nel lungo periodo, il
coinvolgimento della cittadinanza si rivela di maggiore valore aggiunto, permettendo
un più alto senso civico che generalmente comporta una più veloce
implementazione delle scelte deliberate.
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