Il potere di rinunciare


Le vicende dei gilet gialli di questi giorni pongono diverse questioni alla struttura del potere tipico delle nostre democrazie rappresentative. Senz’altro vero come la violenza non giustifica mai l’ideale, senz’altro vero come coloro che sono scesi in piazza con l’idea di usare la violenza non c’entrano nulla con il movimento e sono frange isolate; vero: non si risolvono in questo modo i problemi.
Ma è anche vero, purtroppo, che l’utilizzo della violenza non è semplicemente “una bravata” è una forma di espressione. Infatti, occorre non avere nulla da perdere per accendere una rissa del genere, rischiando la galera o la vita. Allora, da cosa è mossa tutta questa rabbia? Può solo la rabbia giustificare queste azioni, oppure una certa forma di urgenza sociale più profonda?
Quanto i modelli culturali influiscono in questo, se spesso si sente dire da questa gente: “vogliamo solo che la ricchezza sia condivisa”? Ma quale ricchezza? Si sa, il confronto genera più infelicità di ciò che si ha a livello assoluto. Ci sentiamo più poveri commisurandoci costantemente con i ricuchi piuttosto che essere dei semplici contadini tra contadini. Paradossalmente questa corsa infinita per assomigliare agli altri, “a chi sta meglio”, è proprio ciò che ci sta portando verso il baratro. La logica capitalista dell’accumulazione si misura in questa folle rincorsa. Non stupisce allora che tutto ciò genera più depressione che felicità e senso. Allora, si lotta per “condividere la ricchezza” o per rimettere la giustizia? Certo, si dirà, le due cose si assomigliano molto.
Come notava Enzo Bianchi: “Solo chi antepone il bene comune al bene proprio, solo chi mostra di avere senso di responsabilità, merita il potere perché sa renderlo giusto”. Allora, quando al potere non va la giustizia bensì il suo esempio corrotto e manipolatorio, non si può che anelare a questa corruzione: “Oggi, la “politica” è una cruda tecnica strumentale per mobilitare elettori al fine di ottenere obiettivi pre-selezionati, non mezzo per istruire la popolazione alla cittadinanza” (Murray Bookchin). In altri termini, quando l’esempio del potere non è la giustizia bensì l’accumulazione, tutta la forza della protesta, quella forte e collettiva, si concentra sulla sensazione che qualcuno sta facendo il furbo alle proprie spalle piuttosto che su un ideale tradito di giustizia. Il punto allora non è “voler condividere la ricchezza” (nella Francia del 2018, non nel Sudan…) ma, ancora più radicalmente, cambiare il sistema “politico”. Infatti, pensare alla propria ricchezza, al concetto di un “potere d’acquisto” che si sente emarginato è sintomo di più mali:
Il fatto che si suppone esserci un élite (lobby: private, politiche) che fa il bello e cattivo tempo, disconnessa dalla realtà. Il fatto che non è quest’ultima gente a vivere al di sopra dei propri mezzi ma che bisogna protestare per cercare di assomigliargli, nel proprio piccolo. Appunto, il fatto che, misurandosi tutto attraverso il proprio PIL personale del “potere d’acquisto”, il valore della ricchezza è quello che garantisce socialità e reputation.
Il fatto che tutto questo “ragionare per differenza”, rispetto a chi ha i soldi, è sintomo da un lato dell’accettare il sistema, dall’altro dell’assenza di quell’autentica educazione alla cittadinanza che i greci chiamavano Paideia.
In breve, in passato le rivolte scattavano per la povertà più estrema, per la fame. Oggi scattano per uno “stile di vita” che non si riesce ad avere o mantenere. Tutto questo è cifra del paragone sociale basato sul “potere d’acquisto”, del fatto che occorre crescere per non sentirsi emarginati. Avallare il principio capitalista per cui la marea alza tutti: le barche piccole e quelle grandi (…fino a quando non arriva lo tsunami).

Non solo, nel tentativo di riappropriarsi del potere a chi lo si è delegato, si scorge la profonda lontananza tra due modelli opposti di potere stesso. Poiché, come diceva Sofocle, il potere è rivelativo di se stessi: “Non si può conoscere veramente la natura e il carattere di un uomo fino a che non lo si vede gestire il potere”.

Da un lato c’è Homo homini lupus “il fatto che mai nessuno prende il potere con l’intenzione di abbandonarlo” (George Orwell). Per questo il potere è una lotta, quindi tutto è una guerra. Secondo questo presupposto “La prima arte che devono imparare quelli che aspirano al potere è di essere capaci di sopportare l’odio.” (Lucio Anneo Seneca)

Dall’altro lato c’è la constatazione popolare che “l’occasione fa l’uomo ladro” e “quanto più grande il potere, tanto più pericoloso l’abuso” (Edmund Burke). Per questo Platone afferma che: “L’umanità non potrà mai vedere la fine dei suoi guai fino a quando gli amanti della saggezza non arriveranno a detenere il potere politico, ovvero i detentori del potere non diventeranno amanti della saggezza” (Platone).
Per questo le istituzioni che detengono il potere devono organizzarsi per “depotenziarsi”

L’equilibrio della politica rappresentativa che ci ha traghettato fino a oggi è il compromesso di dare l’impressione di scegliere la classe dirigente in cambio di essere manipolati, di essere costantemente l’oggetto di narrative atte a “giustificarsi” in nome degli elettori e dei cittadini. Un difficile equilibrio che si spezza quando la scarsità si affaccia. La crescita è un win win per tutti, alza davvero tutte le barche. Ma quando la secca arriva e il meccanismo si inceppa le diseguaglianze iniziano a venire a galla. Allora la politica, ovvero la gestione del bene comune, deve gestire la pressione contrastante del capitale e quella “del popolo”, soprattutto educato com’è, alla crescita, alla rincorsa al prato più bello del vicino. L’unico modo per uscire dalla contraddizione o è attraverso una nuova forma di “lotta di classe”, oppure attraverso una politica che è pronta a rinunciare al suo potere per legittimarsi di fronte ai cittadini, restituendogli sovranità. L’operazione di rinuncia è rivoluzionaria, soprattutto quando il potere, nella sua prima declinazione, è una droga. Forse la disintossicazione avviene solo quando quel potere è talmente forte da non sapersi rinunciare, minacciandosi.

Purtroppo aveva ragione Walter Benjamin quando affermava: “il dolore che accompagna la sottomissione è preferibile al dolore che sempre accompagna la libertà”. 

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