Gli acceleratori della crisi
Spesso si fa riferimento all’accordo di Montreal
per contrastare il buco nell’ozono come: “un esempio di eccezionale
cooperazione internazionale: probabilmente l'accordo di maggior successo tra
nazioni” (Kofi Annan). Paradossalmente, i due maggiori artefici delle politiche
di deregolamentazione neoliberista sono gli stessi che, prendendo atto
dell’urgenza del problema, spinsero per una sua risoluzione attraverso questo
storico accordo del 1987: Thatcher e Reagan. Questo accordo offre speranza a
tutti coloro che vedono nell’attuale sfida sul clima il riproporsi della
necessità di uno sforzo congiunto. Sotto questo punto di vista l’accordo di
Parigi del 2015 è una base sulla quale costruire risposte efficaci contro
l’effetto serra e, in generale, i problemi ambientali.
Ora, vanno notate alcune divergenze importanti
di contesto e della natura del problema, per cui non è così immediato
paragonare i due accordi e relativi fenomeni:
Il protocollo di Montreal si rivolgeva verso
un problema specifico: i clorofluorocarburi (CFC)
causa della riduzione dello strato di ozono nell’atmosfera. Per questo è stato
sufficiente trovare delle alternative ai CFC per dare risposta al problema
(peccato che tali alternative hanno un alto effetto sull’emissione di CO2). Al
contrario, l’impatto dell’uomo sull’ecosistema (dall’effetto serra alla perdita
di biodiversità) è un problema più generale che chiama in causa i tassi di
crescita dei PIL. Certo, le energie alternative possono rallentare il fenomeno
ma, a quanto pare per il momento la
velocità di sostituzione delle energie rinnovabili non è stata così veloce come
la nostra negativa impronta ecologica. Le prospettive non sono rosee se
consideriamo, secondo le stime, che sono necessari fino a due decenni per
sostituire completamente un regime energetico con un altro. In effetti, un
massiccio investimento su eolico e solare, con relative infrastrutture per
garantirne la distribuzione, hanno bisogno delle vecchie energie fossili. Senza
considerare che la domanda di energia è in crescita. Appare qui evidente tutta
la discontinuità tra politiche di lungo periodo e politica convenzionale.
Quindi il riscaldamento globale è un problema strutturale che chiama in causa
il continuo approvvigionamento stesso di energia e, conseguentemente, su cosa basiamo
il nostro modello di società (crescita economica = benessere). Per questo la
questione ecologica è una questione culturale, poiché chiama in causa abitudini
radicate e aspettative profonde. Purtroppo le soluzioni tecniche sono facili
(far sostituire, magari dagli stessi produttori, i CFC da altri prodotti
chimici), le soluzioni culturali dipende…Purtroppo in questo caso no, come è
facile immaginare, poiché stiamo parlando di cambiamenti di paradigma che
richiedono rinunce. Tutta la sfida è
di interpretare queste ultime come un salto verso un benessere qualitativo più
che una limitazione quantitativa.
Date queste considerazioni, fenomeni nazionalisti,
misconoscimenti del problema ambientale stesso (come Trump e ora il Brasile),
sono degli acceleratori della crisi. Probabilmente questi ultimi sono più utili
di coloro che danno l’impressione di aver compreso l’entità del problema e di
affrontarlo, come nel caso dell’accordo di Parigi. Il problema è ben aldilà
delle nostre attuali capacità, innanzitutto cognitive. In un regime di “dissonanza
cognitiva” non si riconosce il problema fino a quando non se n’è concretamente
colpiti. Far finta di affrontarlo, magari con degli accordi “di facciata”, non
vincolanti e dai quali è possibile tirarsi indietro (come, appunto, “l’accordo”
di Parigi) probabilmente ci fanno dormire bene nel breve periodo. Sono i Trump
e coloro che non vedono il problema a preoccuparci, ad enfatizzare la
questione, accelerandola, magari affrettando quella che altrimenti sarebbe una
più lenta agonia.
Testimonianza uno degli ultimi report del Club
di Roma che, prendendo in mano l’accordo di Parigi, fa un bilancio su qual è la
direzione da prendere ben prima il 2100, ovvero 2030 e poi 2050. Ebbene, per
contenere i danni entro la metà del secolo non è sufficiente “solo” uno sforzo
eccezionale basandoci sulle politiche messe in atto fino ad oggi. No, occorre
un cambiamento radicale che sia “smarter”, a partire da adesso.
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