Ordine mondiale


Seguendo il ragionamento di alcuni post precedenti, diventa chiaro come l’impasse entro cui ci troviamo per non essere ancora in grado di affrontare un “cambiamento di paradigma”, è un problema decisionale in pancia alla politica. Se quest’ultima è vittima del “bene totale” anziché del “bene comune”, per poi essere vittima della post democrazia, ovvero dell’oligarchia partitica, sarebbe interessante immaginare: da un lato come può funzionare una democrazia diretta e su quali basi può nascere un ordine globale che è l’unico capace di affrontare i problemi globali che ci troviamo davanti.
A tale ultimo proposito vorrei far riferimento a tre libri:
Domani, chi governerà il mondo? di Jacques Attali
Come si governa il mondo di Parag Khanna
Ordine mondiale di Henry Kissinger

Tre grandi pensatori contemporanei che, ben lontani dalle impostazioni che mettono in discussione la nozione di crescita, a vario titolo e modo si esprimono sulla necessità di una governance globale.

 Il testo di Attali prende le mosse dai progetti di democrazia cosmopolitica elaborati negli ultimi vent’anni da teorici come David Held e Jürgen Habermas. Tali progetti di governo mondiale ripropongono alcuni dei problemi tipici di una prospettiva di questo tipo, dalle intrinseche difficoltà nella sua realizzazione al rischio delle singole ambizioni di potenza di alcuni Stati.
Attali discute diverse proposte concrete per delineare un possibile governo mondiale: federalismo, coscienza dell’umanità, vigilanza sulle minacce, codice mondiale, minilateralismo (il raccogliersi di alcuni paesi con l’obiettivo di risolvere problemi specifici), riforme istituzionali, formazione di una Camera per lo sviluppo duraturo, creazione di un’Alleanza per la democrazia, versamenti fiscali di sostegno, composizione degli Stati generali del mondo. Nonostante Attali sia un preoccupato osservatore del futuro (basti pensare ai titoli dei suoi libri: Breve storia del futuro; La crisi, e poi?; Sopravvivere alle crisi); peccato che sia la stessa persona che ha presieduto la Commissione per la Liberazione della Crescita nel governo Sarkozy. Solo per dire quanto sia embedded nel sistema crescita = benessere e quanto, in quest’ottica mainstream, i problemi ecologici sono risolvibili solo attraverso un investimento attraverso un po’ di green economy.
Interessante poi la prospettiva di un “rinascimento dal basso” di cui parla Parag Khanna. In sostanza, l’autore indiano afferma che la tecnologia e il denaro, non più la sovranità nazionale di stampo ottocentesco, forgerà il potere. Di conseguenza la frammentarietà della società civile, gli attivisti, i grandi filantropi imprenditori superpotenti, sono tutti attori del nuovo futuro. Ad un attuale “nuovo medioevo” di crisi “liquida”, democratica e nazionale, si contrappone un futuro capace di dettare un “nuovo rinascimento”.  In un altro suo testo Parag Khanna afferma: “Stiamo edificando questa società globale in assenza di un leader globale. L’ordine globale non è più qualcosa che possa essere dettato o controllato dall’alto: la globalizzazione è, di per sé, quest’ordine” (Connectography, p. 521). A tale proposito, ampiamente condivisibili però le osservazioni della seguente recensione:
“Tuttavia, se la descrizione dello scenario geopolitico da nuovo Medioevo, come egli stesso lo etichetta, è ampiamente condivisibile, rimaniamo scettici riguardo all’ottimismo di Khanna nel prospettare un “rinascimento dal basso”. Soprattutto se spinto dagli attori che lo studioso indiano richiama costantemente sulle pagine del suo libro: ovvero la Fondazione dell’ex presidente statunitense Clinton, uno dei maggiori sostenitori delle inique manovre neoliberiste; le grandi Ong che spesso si alimentano esse stesse di “economia di guerra” e vi investono gran parte delle risorse nel proprio mantenimento; i testimonial prestigiosi alla Bill Gates o alla Angelina Jolie che non si capisce mai quanto "ci credano" veramente; le multinazionali, le new company di internet come Google, le stesse università private che, in ogni caso, hanno come primo obiettivo il profitto.”
In fondo, quello che hanno in comune queste impostazioni è di far evolvere l’attuale modello democratico in una sua forma globalizzata a livello centrale, più o meno strutturata. Questo è un passo spinto dal fatto che la globalizzazione economica attraverso l’ordine neoliberale è già avvenuta (basti pensare al Fondo Monetario Internazionale), mentre è restato su una dimensione di mera rappresentanza l’ONU, lasciando vacante e subalterno il ruolo di un reale coordinamento politico transnazionale. Tuttavia, in pochi mettono in discussione che sono le democrazie rappresentative dei singoli stati a dover essere ripensate. Infatti, questo principio evoluzionista verso un “ordine globale” non può che lasciare aperto il campo al fatto che sia un insieme di paesi leader, e in particolare il più potente: gli Stati Uniti, a far pesare la propria voce. Ed è la conclusione alla quale arriva, da buono stratega che per una vita ha vissuto nella Casa Bianca, Kissinger nel suo Ordine globale. Nessun ordine internazionale, scrive Kissinger, può durare senza collegare “power to legitimacy”. Ad oggi solo gli Stati Uniti sono riusciti in questo: “Qualunque sistema mondiale per essere sostenibile deve essere accettato e ritenuto giusto non solo dai Governi, ma anche dai cittadini”.

Ma siamo sicuri che questo modello non sia un replicare e amplificare le derive oligarchiche della postdemocrazia? In effetti, con quale assetto e consapevolezza politica si può decidere quali sono i paesi che dovranno rallentare e quali invece hanno ancora margine di crescita? È legittimo che l’Africa voglia quantomeno raggiungere il livello di sviluppo dei paesi consolidati. Sullo stesso piano, come porre un freno alla superpotenza cinese? In fondo, chi ha mai posto limiti alla crescita dei paesi occidentali, avvenuta, al contrario, a danno di altri? Insomma, una reale cooperazione globale richiede delle rinunce, soprattutto a chi è sul podio da decenni. Potranno mai i paesi più influenti, quelli sul podio, fare un passo indietro e “correre il rischio” di allinearsi con gli altri? Si è sempre combattuto con le armi, oggi si combatte sul piano economico. Chi sarebbe mai disposto a rinunciare a qualcosa per darlo a quello che fino a ieri era un potenziale nemico e minaccia? Se i presupposti per un ordine mondiale sono quelli di appropriarsi definitivamente di una sfera di influenza legittimata, quando sorgono i problemi non possono che chiudersi le frontiere, come Trump fa con il Messico o come l’Europa fa rimbalzando le responsabilità ai paesi di prima accoglienza. Se la questione di una governance globale non è accompagnata da un cambiamento di paradigma la risposta sono i nazionalismi. Il punto è che per evitare masse di migranti alle porte occorre risolvere i problemi da dove le persone sono spinte a emigrare. E questo è chiaro a tutti. Ma per fare in modo che ciò accada occorre iniziare a delocalizzare lo sviluppo lì dove ce n’è meno, quindi iniziare a rinunciare noi a fette di continua crescita economica. Le migrazioni sono solo l’inizio del collasso, sono sempre i poveri infatti a pagare il prezzo più alto dei disastri legati ai cambiamenti climatici.
Il patto di rallentare e redistribuire il business della “crescita a tutti i costi” da parte dei paesi sviluppati è non scegliere la strategia dominante ma decidere di cooperare, come nel caso del dilemma del prigioniero. Il dilemma di quest’ultimo è dato dal fatto che, nel caso i due giocatori scelgano di “tradirsi” non cooperando, il guadagno di entrambi sarà minore che nel caso essi cooperino. Il benessere è davvero collettivo se tutti scelgono in modo trasparente di collaborare. Nei gruppi i guai iniziano quando le ingiustizie creano differenze tanto incomprese quanto ingiustificabili, da qui le diffidenze.
Allora nuovo ordine mondiale come sfera d’influenza 2.0? Quindi possibile ritorno ai nazionalismi e alle armi per difendersi dai paesi emergenti che non ce la fanno ad emergere? (perché magari il FMI gli ha dato dei prestiti tali da imporre una dipendenza economica, sconvolgendo in cambio interi settori di economia locale).
Oppure nuovo ordine mondiale come rappresentazione di democrazie dirette che siano voce di una partecipazione comune su base locale?

Interessante a tale proposito il discorso odierno di Macron, il quale, parlando della transizione energetica e le rivolte dei gilet gialli, afferma: “Fine del mondo e del mese, tratteremo entrambi e dobbiamo trattare entrambi”. Ma pensa di affrontare la fine del mondo da solo con la sua Francia? L’inquinamento inglese e italiano si ferma forse sulla manica e sulle alpi?
Infine, paradigmatico come si debba conciliare il salvataggio del pianeta con la preservazione del “potere d’acquisto”. Nulla di nuovo, concretamente infatti la risposta risiede nello sviluppo tecnico: “Concentriamo i nostri sforzi sullo sviluppo delle energie rinnovabili più competitive, e poiché ci prendiamo cura del potere d'acquisto dei francesi, saremo esigenti con i professionisti sulla riduzione dei costi”. Triplicare eolico e solare da qui al 2030, magari abbassando anche i costi dell’energia. Ma sarà sufficiente?

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