Alternative concrete alla crescita


Considerato che lo “spirito del tempo” non vede che ragioni economiche legate alla crescita (teologia del crescismo) occorre prefigurare il cambiamento a partire dall’economia stessa, altrimenti si rischia di non avere platea e ascolto. D’altra parte, se l’allarme di una distruzione dell’ecosistema, del conseguente rischio di collasso sociale, dei rischi per la salute, non riescono a smuovere sensibilità e politiche a larga scala, conviene riportare la minaccia sul piano squisitamente economico. Magari invitandoci alla bizzarra riflessione di quanto ci potrebbe costare un collasso:
Alla faccia che, per la saggezza popolare, la prima cosa “non erano i soldi ma la salute”!
La cosa sconvolgente non è il rischio di un crollo dell’attuale ecosistema che può generare indesiderati e imprevedibili effetti per il nostro benessere e pace sociale. No, il problema è il PIL, il fatto che si sta finalmente iniziando ad immaginare che le esternalità negative possono avere un costo economico. Ecco, seguiamo quella scia: non parliamo di umanesimo, di questioni sociali e costrutti mentali su cui riflettere. No, parliamo di economia, del mero soldo, e lasciamo disegnare le alternative a degli economisti. Altrimenti sarebbe come parlare di illuminismo a un monaco in pieno medioevo. No, occorre sradicare l’ideologia dal suo stesso interno, affinché possa ardere più velocemente il suo combustibile, avvicinandoci al cambiamento di paradigma.
Vorrei allora proporre il lavoro, concreto, di un economista ambientale che si è occupato di scenari a bassa crescita, affrontando “di petto” la questione. Lo propongo per la risposta pragmatica da dare a chi dice: “ma come facciamo ad uscire dalla crescita?”, senza necessariamente cadere in filosofie utopiche. Lo propongo perché credo sia uno studio ben poco conosciuto in Italia e perché è un po’ più di sola “immaginazione al potere” (Marcuse).
In breve, lo studio di Peter Victor, professore all’università di York, si concentra sulle proiezioni dell’economia canadese da oggi al 2035. Il che è già lodevole come intenzione, considerato che le politiche e le proiezioni economiche, mancando di visioni, vivono di un eterno presente che non supera i 5 anni di orizzonte (sarà forse il termine medio di una legislatura?). Anche perché, se si chiede a chiunque di immaginare i prossimi trent’anni le risposte probabilmente vacillano sfumando nell’incertezza se non nel pessimismo, all’opposto, ad esempio, del 1970 se ci avessero posto la stessa domanda.
Dunque, l’oggetto sono delle proiezioni macroeconomiche effettuate con specifici software di simulazione basate su serie storiche reali, in questo caso l’economia canadese. La pubblicazione di Victor Managing without growth è del 2008 ed è prevista una seconda edizione a inizio 2019.
Gli scenari analizzati sono tre:
1) "Business as usual”: tutti i fattori macroeconomici restano asserviti alla logica crescista, in cui è il PIL a dettare il controllo della disoccupazione e della povertà. Si nota la progressiva crescita delle esternalità negative sull’ambiente che accompagnano l’ascesa del PIL. Nulla di nuovo sotto il sole: disoccupazione e povertà sono contenuti ai livelli attuali (il che francamente sembrerebbe anche una “buona cosa”), anche se per arrivare con fatica a questo obiettivo occorre, appunto, crescere, “pedalare”. Difficile stimare per l’autore stesso quanto l’intelligenza artificiale possa incrementare la disuguaglianza tra ricchi e poveri, ovvero tra chi lavora e chi non lavora. Tra chi ha un crescente ritorno sul capitale a scapito della manodopera, con l’obiettivo di perseguire una sempre nuova efficienza. Se è vero che l’intelligenza artificiale e “l’internet delle cose” minacciano intere professionalità.


2) Uno scenario “no growth disaster”: che si può descrivere con il tentativo di rispondere a problemi nuovi con logiche vecchie, ovvero il giusto contenimento del PIL per ridurre l’impatto ambientale ma senza prevedere uno strutturale cambio di modello sociale ed economico. Uno scenario che ricorda un po’ la Francia di questi giorni, in cui si vuole giustamente applicare la tassa sul carburante senza detassare altre cose, senza proporre delle alternative alle abitudini energetiche che il modello economico attuale prevede. Infatti è facile immaginare come con l’esplosione della povertà e disoccupazione si possano creare le rivolte dei “gilet gialli”.


3) Uno scenario “Low/no growth”: in cui la risoluzione del problema ambientale passa necessariamente per un cambiamento di paradigma tout court. Dai pillars che lo stesso Victor segnala su “come” portare avanti tutti questi cambiamenti, appare chiaro come si tratta di un ripensare a fondo i fondamentali che stanno dietro all’economia come la conosciamo da più di due secoli (l’homo oeconomicus). Il mutamento non è solo una “transizione energetica” ma più profondamente una “transizione culturale”. Dei dieci punti elencati, ben 6 impattano le convinzioni profonde, le mappe mentali attraverso cui pensiamo il mondo e nozioni come: crescita, benessere, successo, status, felicità. In particolare:

·         nuovo modo di misurare e concepire il “successo”,
·         rivalutazione della nozione di “limite”
·         riduzione dell’orario di lavoro
·         meno beni legati allo status e maggiore focus sulla funzionalità dei prodotti aldilà dei bisogni indotti
·         più marketing trasparente e informativo
·         educazione sul ben vivere piuttosto che sul successo lavorativo

Tutti questi punti sono estremamente culturali, rinviano a un piano di reale ripensamento filosofico dello spirito del nostro tempo. Appunto, un nuovo rinascimento umanista che cambia il rapporto con le cose. Se gli altri punti: tassa sul carbone, controllo demografico, più programmi contro la povertà, più efficiente stock capital; appaiono tutti punti più o meno “tecnici”, sebbene con notevoli impatti sociali, gli altri sei sono una vera e propria “decolonizzazione dell’immaginario” (Latouche). Il fatto che questo scenario macroeconomico di fatto coincide con tutto ciò che altri pensatori, su un piano più sociologico/filosofico, hanno detto è testimonianza del fatto che la limitazione del PIL (per non parlare della sua decrescita) comporta un significativo cambiamento di paradigma prima ideologico, poi sociale ed economico. 



Tutto questo non fa che confermare come l’economia sia una scienza sociale, dietro la quale c’è in prima istanza più di scienze umane che non di tecnocrazia e matematica. Se ciò non accade, l’umanesimo si eclissa a vantaggio di una prassi economica che diventa ideologia. Di un’economia di mercato che viene fatta corrispondere al capitalismo, quando in realtà il primo è il presupposto entro cui si muove il secondo. 
In particolare, qui vale la pena aprire una parentesi. L’economia di mercato è il terreno entro cui, nella modernità, si sviluppano gli scambi commerciali; ma qual è il fine? Per quale idea di società? L’economia di mercato nasce progressivamente con il rinascimento e le sue fondamenta sono: divisione del lavoro, accumulazione, libertà. Ma accumulazione per cosa? Nello spirito rinascimentale lo scopo era il bene comune, quindi la divisione del lavoro dava la possibilità a tutti gli attori di affermarsi e realizzarsi all’interno della società attraverso un mestiere. Accumulazione era accumulazione non per speculare bensì quel “fieno in cascina” per vivere dignitosamente il futuro. Libertà non era la “legge del più forte” e il diritto di prevaricare (magari negando la libertà stessa attraverso un monopolio), bensì garanzia e possibilità di partecipazione. Il problema centrale è che tale bene comune, tanto progressivamente quanto improvvisamente, con la rivoluzione industriale ha iniziato a coincidere con il bene totale. Ovvero, attraverso la “mano invisibile” (che tra l’altro Smith non ha mai teorizzato), l’egoismo individuale è diventato il mattone primo che costruiva il benessere collettivo. Evidentemente non è così: il bene comune pone l’accento sulla ripartizione e poi sul fatto che il benessere è un benessere sociale, ripartito; il bene totale fa un po’ quello che fa la Thatcher quando dice che “la società non esiste”, cosa importa se la ricchezza non è redistribuita se l’importante è il PIL che aumenta? Appunto, non è un caso che il PIL nasce nel regime ideologico del “bene totale”. Questa “totalità” è un riduzionismo che non scende nel singolo e la sua “comunità”, magari scoprendo che vive vicino a una discarica, che ha un lavoro precario perché il datore di lavoro ha delocalizzato etc.       
Quindi occorre una “rivoluzione mentale” fortemente radicata nei presupposti filosofici, culturali dell’economia. Un tale approccio di economia ambientale ne è la rappresentazione. Rappresentazione sempre più inevitabile nella misura in cui si fanno convergere i costi alle esternalità negative. Purtroppo è con l’esaurimento dei paradigmi ideologici stessi che sono all’interno dell’attuale modello economico che è possibile superarlo, non con il buon senso.
Come dice P. Victor, sono innumerevoli i modelli di simulazione economica che si possono fare, infatti nel documento qui allegato in inglese che sintetizza lo studio, si aggiunge anche la proiezione di esplicita decrescita oltre a quello di crescita stabilizzata. 
Sono anche molteplici gli studi e gli autori su questo argomento, tant’è che P. Victor ha poi sviluppato queste ricerche con Tim Jackson, economista noto per il suo Prosperità senza crescita. I due hanno provato ad aggiungere nel sistema di simulazione LowGrowth tutto il comparto finanziario, spinti anche dalla crisi finanziaria del 2007/08. Appunto, si tratta sempre meno di casi isolati e se ne potrebbero citare altri. Quello che li fa essere isolati è il fatto che non escono al di fuori dell’accademia, entrando nel dibattito pubblico, soprattutto in chiave di mainstream economica e di strategia politica.  

Le politiche nazionali sono imprigionate in un meccanismo di competizione globale, costrette nelle stesse logiche mercantili degli andamenti finanziari. Quindi, per uscirne la domanda non è: e chi paga tutto questo? Austerity o un nuovo piano Marshall? Piuttosto iniziare dal cambiamento di paradigma, dal rivedere le filosofie che ci stanno dietro. Perché solo a partire da queste è possibile vedere altre strade che ora neppure immaginiamo, fino a quando l'utopia al potere non sarà più un'immaginazione ma una necessità di salvezza.

Ecco il link con la sintesi dello studio: https://degrowth.org/wp-content/uploads/2011/05/Victor_Growth-Degrowth-and-Climate-Change.pdf

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