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Perchè le società falliscono

Il premio Pulitzer Jared Diamond è noto per aver ampiamente divulgato, attraverso un’accurata indagine storica transdisciplinare, “il perché le società falliscono” (intervento TED del 2008). Il titolo di alcuni dei suoi libri è programmatico: Armi, acciaio, malattie (1998), Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (2005). Ebbene, lo scrittore statunitense ci offre una gerarchia di considerazioni tale da rendere più intellegibile la dissonanza cognitiva che si crea tra problema e ideologia. Ovvero il cortocircuito mentale che avviene quando un certo sistema di credenze e relative pratiche, magari di successo in un certo momento, se non rimesso in discussione lì dove inizia a generare problemi, può condurci verso il collasso. 1) La prima considerazione è il conflitto d’interessi tra il breve termine e il lungo termine . Questa dissociazione può essere più o meno latente e in buona parte il capitalismo deve il suo successo alla capacità dimostrata negli ultimi due secol

Quale crescita per quale curva?

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Se tutto risponde a una gaussiana, a cui applichiamo degli ossimori per cercare di contrastarne e condizionarne eventuali esiti decrescenti indesiderati, anche l’inquinamento non fa eccezione e rientra in questa regola. Regola rappresentata dalla curva di Kuznets ambientale, per cui nella fase iniziale dello sviluppo economico (PIL) si assiste a un’alta impronta ecologica per poi iniziare a decrescere non appena nuove tecnologie, più pulite ed efficienti, sostituiscono le vecchie. Questo modello garantirebbe il cosiddetto “disaccoppiamento” tra inquinamento (in particolare emissioni CO2) e aumento del PIL. Tutto questo sarebbe già una felice e incoraggiante realtà successa in più di 20 paesi tra il 2000 e il 2014: Austria, Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Paesi Bassi, Portogallo, Romania, Slovacchia, Spagna, Svezia, Ucraina, UK, Stati Uniti, Uzbekistan (Fonte: BP Statistica Review of World Energy 2015, World Bank

L'età degli ossimori

Vivere nell’età degli ossimori vuol dire credere che la contraddizione si risolva in un progresso, in una hegeliana sintesi che emerge dal confronto tra tesi vs antitesi. Questa è una concezione lineare tipicamente occidentale, vissuta da un certo teleologismo biblico, in cui si vede la storia come un processo orientato a un fine, che sia la provvidenza o poi la razionalità. Si pensi a Helgel: “ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale”. All’opposto, le concezioni del mondo orientali sono permeate da una certa ciclicità ricorrente, basti pensare al concetto di Saṃsāra e al ciclo di rinascite a cui sottintende la dottrina della reincarnazione. Sotto il punto di vista occidentale le competizioni, le frizioni che queste presentano anche da un punto di vista meramente darwiniano, sono delle inevitabili necessità verso uno stato migliore del mondo. Così, pensiamo sia possibile coesistere in dei fenomeni contraddittori, pensando che tale opposizione sia (anche in termin

Il paradosso del potere

Questo è il titolo del libro dello psicologo sociale Dacher Keltner. Una ricerca che offre supporto al senso comune quando afferma: “il potere monta la testa”. Una sorta di droga che ci rende più impulsivi e meno capaci di comprendere gli altri. Il paradosso risiede nel fatto che, nell’esercizio del potere, sono proprio le qualità che ci hanno portato ad averlo, ovvero la capacità di essere empatici e disponibili verso l’altro, ad essere minacciate. Un paradosso che ben si esprime nella democrazia rappresentativa, in cui nella fase persuasiva (elettorale e di consolidamento del consenso) il potere si mostra a completo servizio del bene pubblico, mentre nella fase esecutiva si mostra ben più pragmatico e spietato. L’aspetto interessante della ricerca di Keltner è non solo la preoccupazione morale sul singolo individuo, per cui banalmente il potere ci cambia rendendoci mediamente persone peggiori, quanto il fatto che, proprio perché peggioriamo influenziamo in malo modo anche il futur

Per una visione d’insieme

Nonostante diversi sociologi ( Karl Polanyi  e  Mark Granovetter ) abbiano parlato di “embeddedness” riferendosi alla sfera economica nella società, oggi all’opposto si ha la sensazione che l’economia abbia annientato quest’ultima. È questo presupposto, che ci impedisce di avere una visione d’insieme chiara. Un presupposto che antepone la tecnica al fatto di avere una visione necessaria che possa indirizzarla. Ne abbiamo la prova quando, di fronte alle crisi ecologiche che viviamo rispondiamo con degli ossimori come “sviluppo sostenibile”. Non avendo una visione ma solo approcci tecnici (meglio, essendo la nostra visione solo di natura tecnica) non riusciamo a rimettere in questione la nozione di sviluppo. In questo modo pensiamo sia sufficiente migliorare le soluzioni tecnologiche; ci affidiamo alla fede che quello che oggi è un problema domani non lo sarà più. La verità è che le sfide in questione richiedono di ricordarci dell’inevitabile “embeddedness” dell’economia nell’umano

Dark Optimism

Il problema del cambiamento non è tanto un problema in sé, bensì quanto questo comporta da un punto di vista sociale. Non di rado cambiare i propri paradigmi e stili di vita significa inserirsi in un altro contesto relazionale che porta ad allontanarci da quello passato; certo, a meno che il cambiamento non è traghettato dal gruppo di riferimento. Questo è l’ostacolo più grande al mutamento, tanto più grande nella misura in cui abbiamo da perdere le relazioni, la reputazione, ciò che eravamo per gli altri. Questo ha molto a che fare con la predisposizione al mutamento delle società, infatti non si affermano certe logiche perché il contesto culturale di riferimento è in gran parte legato a certe ideologie e decostruirle vuol dire marginalizzarsi ed essere visti come “estremisti”.  Purtroppo il nostro destino è nell’imitazione poiché pensiamo che nell’imitazione della maggioranza risieda il buon senso, quando in realtà è esattamente l’opposto: occorre portare la maggioranza al buonse

Immenso "effetto rebound"

L’effetto rebaund compare spesso nelle ricerche sull’efficentamento energetico e in alcuni casi negli studi in ambito economico. Si possono offrire molti esempi di tale effetto: Un classico caso di studio è quello di un’automobile più efficiente. Lì dove ogni chilometro percorso diventa più conveniente, si verificherà un aumento della velocità di guida o anche dei chilometri percorsi, fino a quando le esternalità positive rese dall’efficienza non vengono azzerate se non addirittura arrivano a peggiorare la situazione. La stessa cosa può accadere con le lampadine a basso consumo energetico piuttosto che con un nuovo condizionatore. Dove la percezione di consumare meno e l’abbassamento unitario del costo ne aumentano la domanda, incrementando i consumi a livello aggregato.   Nonostante l’intenzione positiva ed economica del car pooling, la sua pratica può rendere più vantaggioso intraprendere dei viaggi che prima non si sarebbero fatti, magari anche a svantaggio dei trasporti pub